martedì 15 dicembre 2015

Pasolini e Dante (da Le parole e le cose)





Pasolini e Dante. La “divina mimesis” e la politica della rappresentazione

 -  
di Emanuela Patti
[Quest’anno si celebrano i 40 anni dalla morte di Pasolini e i 750 anni dalla nascita di Dante, 
due autori accomunati dall’interesse per il valore politico della lingua e della rappresentazione. 
A chiusura di questo periodo di anniversari pubblichiamo l’anticipazione di un libro di Emanuela
 Patti, Pasolini After Dante. The ‘Divine Mimesis’ and the Politics of Representation in uscita presso
 Legenda (Oxford).
 Le pagine che seguono riprendono, per frammenti e in traduzione, alcune delle questioni
 trattate nel volume]
Mimesi. “Il punto d’avvio non può essere che il concetto di mimesi”, scriveva Daniele Giglioli 
qualche settimana fa in apertura di un suo contributo su Réné Girard pubblicato su LPLC. 
E questo è anche il punto di partenza del rapporto tra Pasolini e Dante, fortemente incentrato sui temi 
della rappresentazione e dell’imitazione. Nella riflessione pasoliniana sulla “realtà rappresentata” 
(mimesis), Dante ha avuto di fatto un ruolo di primo piano. Negli anni Cinquanta la sua influenza ha
 preso la forma di un certo “realismo dantesco” nella narrativa e poesia pasoliniana, a partire dall’
esempio di oggettività, sperimentalismo e plurilingualismo di Dante diffuso da un saggio di Gianfranco
 Contini del 1951, “Preliminari sulla lingua del Petrarca”. In particolare, il plurilinguismo sarebbe
 diventato per lui un modello per ripensare la rappresentazione dell’altro (delle classi subalterne e della
 loro realtà) a livello sociologico, in relazione alla “questione della lingua” e del “nazional-popolare”. 
Nei primi anni Sessanta, invece, Dante è diventato fonte di ispirazione di un certo “realismo figurale”
 nel cinema pasoliniano a partire dai concetti di figura e “contaminazione degli stili” di Erich Auerbach –
 come emerge chiaramente nella fase “nazional-popolare” del suo cinema che va daAccattone (1961) a 
Il Vangelo  secondo Matteo (1964). In questi film la contaminazione degli stili, tradotta in ibridazione di pittura, 
musica, letteratura ed immagini in movimento, ha consentito associazioni semiotiche piuttosto radicali
 tra cultura alta e cultura bassa e, nello specifico, tra la figura di Cristo e quella del sottoproletariato. 
Sulla base di queste premesse, l’ipotesi di questo libro è che Pasolini abbia trovato in Dante — e più 
precisamente in alcune interpretazioni critiche della sua opera (in particolare quelle di Contini ed 
Auerbach) — un modello con cui rispondere, in ambito artistico, ad una domanda estetico-politica di
 grande rilevanza per il suo tempo: la rappresentazione dell’altro, il popolo. Che cosa significa 
“popolare” in poesia, narrativa, cinema? E qual è il ruolo dell’intellettuale/poeta che vuole 
rappresentare il popolo in modo realistico?
In questo discorso, è chiaramente cruciale per Pasolini la connessione tra l’esempio di Dante e quello 
di Cristo, in quanto entrambi rappresentano, come ricorda Auerbach, gli esempi, per eccellenza, di 
radicale contaminazione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, tra la parola e la carne. Attraverso la 
tradizione cristiana a lui disponibile, Dante riesce a raggiungere questa integrazione tramite il doppio
 ruolo di auctor/actor che gli consente di combinare la funzione intellettuale con l’illusione di un reale
 viaggio fisico attraverso l’inferno, il purgatorio e il paradiso. Ed è proprio questo modello di “poeta 
della realtà” ad offrire a Pasolini, almeno negli anni Cinquanta, un esempio, sul piano linguistico ed 
autoriale, di integrazione delle due funzioni, in pieno clima ideologico post-crociano. Eppure, per 
Pasolini, come l’autore scriverà nel 1965 in “La volontà di Dante “a” essere poeta”, il realismo di Dante
 rimane un mistero. L’incarnazione, vera ambizione del suo realismo, gli parrà ad un certo punto 
problematica in letteratura. L’originalità con cui Pasolini ha affrontato l’argomento della “realtà 
rappresentata” in relazione alle classi subalterne ha comunque avuto il merito di mettere in evidenza
 il divario esistente tra il cuore idealistico del discorso  etico-politico delle culture realiste del suo tempo e il livello dialettico, materiale dell’esperienza artistica.
Nel contesto del periodo considerato, la riscrittura pasoliniana della Divina Commedia, La Divina 
Mimesis, il cui corpusprincipale è stato scritto tra gli anni 1963 e 1965 — con un momento di brusca
 interruzione proprio dopo le celebrazioni per i 700 anni di Dante nel 1965 — si colloca in un momento
 di svolta nella carriera pasoliniana e costituisce la sua fondamentale riflessione sul ruolo autoriale, 
misurato, appunto, sull’imitazione di Dante. La riscrittura pasoliniana della Divina Commedia non 
prenderà mai forma compiuta e resterà nel cassetto per anni, con poche ma importanti aggiunte di note
 o frammenti. Eppure, Pasolini decise di consegnare all’editore quest’opera, proprio nel suo stato
 incompiuto e frammentario, pochi giorni prima di essere ucciso nel novembre del 1975. La Divina 
Mimesis verrà pubblicata postuma qualche settimana dopo ed è una delle più significative dichiarazioni
 poetiche che l’autore ci ha lasciato.
Per mettere in luce le relazioni che questo testo frammentario ed incompleto stabilisce con l’attività 
poetica, narrativa e saggistica di Pasolini negli anni Cinquanta, il suo primo cinema e il dibattito sulla 
nuova questione della lingua” ed il nazional-popolare, la rappresentazione di Dante in Pasolini viene 
qui affrontata come un fenomeno complesso e stratificato di appropriazione creativa che va interrogato
 a diversi livelli. Innanzitutto, le interpretazioni critiche di Dante nel dopoguerra italiano: quale modello 
di Dante è stato diffuso nelle letture di Contini e Auerbach? E poi, in che modo Pasolini si è appropriato di queste letture e come è stato usato il modello di Dante per ripensare la rappresentazione delle classi subalterne in 
relazione ad altri modelli culturali come quello gramsciano?
II
Realismi. Va subito detto che le forme di “realismo” del dopoguerra — tipicamente associate all’
impegno ideologico del neorealismo o del realismo socialista di raccontare le condizioni di vita del 
popolo o dei socialmente esclusi nell’ambito del progetto nazional-popolare — risultavano a Pasolini
 insufficienti e con non poche contraddizioni. Innanzitutto, queste spesso rivelavano una mancanza di
 “reale” esperienza dell’altro da parte dell’artista borghese, con la conseguenza di restituire
 rappresentazioni stereotipate e poco autentiche. Nel volume resta infatti sottesa la questione  — 
recentemente discussa anche nel libro di David Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale 
dall’unità a oggi (2015) — che riguarda i limiti di alfabetizzazione  e di potere delle classi subalterne 
nell’auto-rappresentarsi in letteratura, condizione alla base dell’impegno di molti intellettuali, 
normalmente appartenenti ad una classe più alta, di “parlare per loro”. Questo è un punto che Pasolini
 solleva già nel 1952 anche per la poesia dialettale, mettendo in evidenza il falso binomio tra realismo e
 dialetto (vedi Poesia dialettale del Novecento), quella che Fortini chiamava la “coltivazione artificiale 
dei dialetti”. In secondo luogo, non venivano messe in discussione le strutture linguistiche che 
veicolavano contenuti della realtà finendo per utilizzare una lingua tipicamente borghese per 
rappresentare il popolo. Lo sperimentalismo linguistico non era nell’agenda del realismo. Un’altra 
contraddizione emergente nella riflessione pasoliniana sul realismo riguarda i limiti del medium 
letterario che può solo sviluppare forme di approssimazione all’esperienza emozionale e fisica di una 
determinata realtà. Come imitare la lingua e i comportamenti degli altri è stato di fatto il principio guida
 della sua sperimentazione narrativa attraverso vari media artistici, in particolare nel passaggio dalla 
letteratura al cinema. È costante in Pasolini il desiderio di annullare la virtualità delle rappresentazioni
 egemoniche, nel suo tentativo di trasformare la parola, letteralmente, in carne.
III
1951. Realismo dantesco. La lezione di Gianfranco Contini fu per Pasolini determinante. Attraverso la
 sua interpretazione di Dante, Contini implicitamente offriva agli scrittori del dopoguerra un modello 
linguistico-letterario post-crociano. Nel suo saggio, “Preliminari sulla lingua del Petrarca” (1951), 
contrapponeva il monolinguismo petrarchesco al plurilinguismo dantesco: al primo Contini faceva 
corrispondere lo stile linguistico puro, assoluto e selettivo; al secondo, lo stile ibrido, sperimentale ed 
aperto alle contaminazioni di stile, genere e lingua. In linea con i valori ideologici di quegli anni, questo rispondeva all’esigenza di un approccio autoriale basato su un rapporto dialettico nei confronti della realtà. Pasolini fu particolarmente ricettivo verso questa lettura, non ultimo per lo speciale rapporto che lo legava a Contini — vale la pena ricordare che quest’ultimo fu il primo a riconoscerlo come “autore” scrivendo la sua recensione della prima raccolta
 poetica di Pasolini, Poesie a Casarsa (1942). Non a caso, Dante e le sue tecniche poetiche e narrative — lo sperimentalismo, la contaminazione dei linguaggi — sarebbero state conciliate da Pasolini con la vocazione ideologica 
di rappresentazione delle classi subalterne. Va infatti precisato che l’Italia di quegli anni presentava uno
 scenario di bilinguismo non troppo diverso da quello di Dante. L’italiano era principalmente la lingua
 letteraria dell’élite, mentre la maggior parte degli italiani parlava i dialetti. Esisteva sicuramente un’
affinità tra l’Italia di Pasolini e quella dei tempi di Dante: simile era il divario tra lingua istituzionale 
“alta” del potere, della scienza e della religione (latino) e la varietà plebea del volgare. Come Dante, 
Pasolini partecipava ad entrambi i mondi linguistici. Sia per Dante che per Pasolini era dunque 
fondamentale la questione di come tradurre il plurilinguismo in letteratura. Per gli scrittori del 
dopoguerra si poneva infatti la questione di come realizzare una cultura nazional-popolare, o meglio 
popolare-nazionale, in altre parole, in che modo fare entrare il popolo nella scena della 
rappresentazione letteraria, dunque identitaria del Paese. Lo scrittore  impegnato si trovava quindi a 
svolgere una funzione di ponte tra intellettuali e popolo che aveva come obiettivo proprio la 
rappresentazione. Non troppo distanti erano le parole di Gramsci quando parlava di
 “rappresentanza” nei Quaderni del carcere:
Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti – tra governanti e governati – è 
dato da una adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere (non
 meccanicamente, ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio
 di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita di 
insieme che solo è  la forza sociale; si crea il “blocco storico”.
Se è vero, come scriveva Gramsci, che in Italia il divario tra letteratura nazionale e realtà sociale era 
enorme in Italia, tuttavia il pensatore sardo non forniva indicazioni sul come colmare questo divario in
 letteratura. Partendo da queste riflessioni, Pasolini prese a cuore proprio la questione del come. Come
 può uno scrittore borghese, socialmente e psicologicamente diverso dai suoi personaggi e dalla loro 
realtà, rappresentarli senza imporre egemonicamente la propria lingua, dunque visione del mondo? Il 
paradigma continiano che opponeva plurilinguismo dantesco a monolinguismo petrarchesco offriva una
 risposta stilistica e venne sviluppato in due direzioni principali nell’opera pasoliniana: (1) un’
espansione della lingua poetica verso il reale che ha portato allo sperimentalismo linguistico in poesia
 (in particolare, Le ceneri di Gramsci); e (2) un approccio mimetico verso la lingua dell’altro che ha 
portato, specialmente in narrativa, a ciò che Pasolini chiamò la “regressione nel parlante” (una sorta di
 uso performativo del linguaggio, messo in atto per evitare rappresentazioni aprioristiche delle classi 
subalterne). Su questi due pilastri Pasolini ha sviluppato la sua filosofia del linguaggio in alcune delle 
sue principali opere poetiche, narrative e saggistiche degli anni Cinquanta come Le ceneri di Gramsci,
 Ragazzi di vita e l’attività di Officina. In quest’ottica, il plurilinguismo di Dante è stato assunto da 
Pasolini come il miglior modello letterario di performatività attraverso il quale colmare il divario tra la
 teoria e pratica del “realismo” negli anni Cinquanta.  Vale dunque la pena sottolineare che da Ragazzi 
di vita a Le ceneri di Gramsci, da La Mortaccia a La Divina Mimesis, per Pasolini attraversare l’Inferno
 non significava fare esperienza del peggior destino possibile, ma anzi provare empatia verso gli altri e,
 attraverso l’empatia,  dare voce alla vita degli altri. Per quanto si tratti di un’esperienza virtuale, quella
 che Pasolini ha definito come l’opera più realistica della letteratura italiana, La Divina Commedia, di 
fatto evoca intensamente l’esperienza umana nella sua straordinaria diversità. È in affinità con queste
 considerazioni che Pasolini formula progressivamente il suo concetto di “regressione nel parlante” e di
 “intellettuale mimetico”, presenti già in alcuni scritti dei primi anni Cinquanta, ma emersi più 
esplicitamente solo nei saggi sulla lingua e  su Dante del 1965. Sentire il popolo per capirlo, scriveva 
ancora Gramsci qualche riga prima nella citazione sopra riportata. Non è forse questo il messaggio che 
compare tra le righe de Le ceneri di Gramsci, scritto in una lingua che fortemente richiama quello 
sperimentalismo linguistico dantesco? E che cos’è La Divina Mimesis se non il racconto impossibile di
 un viaggio agli Inferi?
IV
Realismo figurale. Se la ricezione del plurilinguismo di Dante ha avuto luogo in un momento 
storico-culturale in cui Pasolini credeva che la cultura potesse essere rinnovata attraverso la letteratura, 
la sua appropriazione della “contaminazione degli stili” — un concetto chiave della lettura di Auerbach
 della Divina Commedia — è stato il pretesto per guardare oltre la letteratura. Nel 1956 Mimesis. 
Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur veniva finalmente tradotto in italiano
 [Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale] e pubblicato da Einaudi, e solo alcuni mesi dopo
 troviamo già i primi riferimenti alla sua terminologia e l’uso di espressioni come sermo humilis,
 sermo piscatorius, e, appunto, “contaminazione degli stili”. Il saggio “La confusione degli stili” (1957)
 di Pasolini, per esempio, risulta già un tentativo di applicare la nozione di Auerbach alla tradizione
 letteraria italiana per verificarne il grado di contaminazione culturale. Ma è soprattutto nel cinema che
 Pasolini ottiene i migliori risultati di appropriazione del realismo figurale di Auerbach. Uno dei primi
 e più significativi riferimenti si trova nella ‘Nota su Le notti’ (1957), scritto dopo la sua collaborazione
 con Fellini a Le notti di Cabiria: “Fellini mi raccontava, trascinandomi in quella campagna perduta in 
un miele di suprema dolcezza stagionale, la trama delle Notti. Io, gattino peruviano accanto al gattone 
siamese, ascoltavo con in tasca Auerbach”. I concetti di “contaminazione degli stili” e di “realismo
 figurale” sono quanto Pasolini trova di più utile per concepire il suo stile cinematografico in quelle 
sue prime esperienze accanto a Fellini. Nel suo cosiddetto cinema “nazional-popolare”, Pasolini di fatto
 traduce la contaminazione degli stili in una forma di ibridazione di media artistici (pittura, musica,
 letteratura e cinema), usando il concetto di figura per creare interconnessioni semiotiche tra i 
protagonisti dei suoi film (Accattone, Ettore, Stracci, e Gesù Cristo) e la figura Christi. La 
contaminazione degli stili viene infatti usata come strategia estetica per redefinire i confini gerarchici 
della rappresentazione sociale. Nello specifico, il primo cinema pasoliniano risulta come 
un’approssimazione figurale progressiva alla figura di Cristo, prima solo suggerita attraverso 
associazioni simboliche musicali (per esempio, attraverso la musica di Bach), pittura (si pensi al Cristo
 morto di Mantegna o alla Deposizione di Pomtorno), e sculture (la figura dell’angelo e la croce in 
Accattone), fino alla totale identificazione con Cristo in persona ne Il Vangelo secondo Matteo. Non 
solo Cristo è la parola che si fa carne, ma anche il soggetto ‘sacrificale’ per eccellenza. Ed è proprio in
 questa combinazione di rappresentazioni figurali della realtà altamente intellettuali  e rappresentazioni
 fisiche, più immediate di corpi, che Pasolini raggiunge un realismo creaturale di grande portata. 
Salvare, attraverso la morte, i suoi “poveri Cristi” da una società che minacciava la scomparsa della 
loro differenza culturale all’inizio degli anni Sessanta segna quel passaggio fondamentale, nella 
carriera di Pasolini, dalla fiducia in un “buon Inferno” di diversità linguistica e culturale, quello delle 
borgate degli anni Cinquanta, alla speranza di una salvezza al di fuori dell’“universo orrendo” nei 
primi anni Sessanta e poi la definitiva perdita di ogni fede al realizzarsi dei due Paradisi, quello 
capitalistico/consumistico e quello comunista – che in entrambi i casi rappresentavano per Pasolini, 
come scrive ne La Divina Mimesis, due forme di omologazione linguistica e culturale, la Lingua dell’
Odio.  A quest’altezza, per Pasolini, sacralità è sinonimo di esclusione: auto-esclusione come salvezza 
dall’omologazione culturale. Giorgio Agamben, non a caso personaggio de Il Vangelo, ne avrebbe
 scritto in Homo Sacer.
V
1965. Centenario dantesco. In occasione dei 700 anni dalla nascita di Dante, Pasolini aveva rilasciato
 un’intervista radio la cui trascrizione è rimasta inedita fino al 1999 e poi finalmente pubblicata nell’
edizione Meridiani Mondadori dei Saggi sulla letteratura e sull’arte. Questo testo, “Dante e i poeti 
contemporanei”, aiuta a ricostruire quelle interconnessioni, rimaste invisibili per oltre quarant’anni, tra
 La Divina Mimesis, la sua attività poetica, narrativa  e saggistica degli anni Cinquanta (in particolare, 
le antologie Poesia dialettale del Novecento, La poesia popolare italiana, Ragazzi di vita, Le Ceneri di
 Gramsci, il lavoro di Officina“In morte del realismo”), il suo cinema “nazional-popolare” (Accattone,
 Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo) e gli scritti coevi sulla lingua. Tutti questi 
documenti hanno in comune un continuo dialogo con Dante sulla rappresentazione, attraverso il quale, 
come anticipato sopra, Pasolini ha tentato di dare nuovo significato alla nozione di “plurilinguismo” 
prima, e “contaminazione degli stili”, poi, due concetti dai confini spesso evanescenti, alla base del suo
 progetto di radicale contaminazione tra “cultura alta” e “cultura bassa”. Dichiarava Pasolini in quell’
occasione:
"C’è stata negli anni Cinquanta, presso un gruppo di addetti ai lavori, molto impegnati in questo, sulla 
scorta di un ormai famoso saggio di Contini, una specie di assunzione di Dante a simbolo. Il suo 
plurilinguismo, le sue tecniche poetiche e narrative, erano forme di un realismo che si opponeva, ancora
 una volta, alla Letteratura. Sicché io, nel mio operare di quegli anni, avevo in mente Dante come una 
specie di guida, la cui lezione, misconosciuta o mistificata nei secoli, era ricominciata ad essere 
operante con la Resistenza. Ora quell’idea di realismo degli anni Cinquanta pare ed è superata e con
 essa si stinge l’interpretazione dantesca della ‘compagnia picciola’ che dicevo". (Pier Paolo Pasolini, 
‘Dante e i poeti contemporanei’, 1965)
Il testo critico a cui Pasolini fa riferimento è “Preliminari sulla lingua del Petrarca” (1951); il gruppo di
 addetti ai lavori – la cosiddetta “compagnia picciola” – erano gli scrittori gravitanti intorno ad Officina,
 nonché Sanguineti e Fortini; ed è evidente, dalle parole di Pasolini, che Dante era stato preso come 
modello linguistico, stilistico, ma anche ideologico di un certo modo di fare letteratura sperimentale,
 decisamente in opposizione all’“istituzione letteraria” (la “Letteratura”). Lo sguardo di Pasolini è 
tuttavia retrospettivo:  come afferma in conclusione, quell’idea di realismo è superata e con essa una
 certa lettura dantesca.
Sempre in occasione del centenario dantesco, Pasolini era stato invitato da Anna Banti, direttrice 
insieme al marito Roberto Longhi della rivista Paragone, a contribuire ad un numero speciale in 
occasione del centenario. Pasolini avrebbe inviato un articolo, “La volontà di Dante “a” essere poeta”
 (1965), che metteva infatti in discussione proprio quell’interpretazione di Dante che tanto formativa 
era stata per lui negli anni Cinquanta, come dichiarato nell’intervista radio sopra riportata. In sintesi, 
svelando per la prima volta l’archeologia di quel modello formativo, Pasolini rileggeva il plurilinguismo
 dantesco mettendo fondamentalmente in discussione i limiti del medium letterario e il ruolo dell’
auctor. Inutile dire che il saggio avrebbe fatto infuriare dantisti e filologi della portata di Cesare Segre e
 Cesare Garboli, che leggevano il testo pasoliniano come un’incursione militante nella critica 
accademica, un intervento intellettuale inappropriato e fuori luogo — “una danza astratta sulla 
superficie di qualche “auctoritas” con le carte in regola” (Segre) —, e persino irritante. Scriveva infatti 
Garboli: “questo tipo di critica oracolare, divineggiante, eccitatissima, rabdomatica, tutta sui nervi, 
sempre affannata dalla smania di arrivare in tempo, eternamente sul punto di scoprire l’America, magari
 prendendo per nuove rive territori marcatissimi su mappe correnti, mobilita tutta la mia più profonda 
repulsione”. Pasolini rispose alle critiche ricevute e, di fatto, la polemica si estese per diversi articoli 
pubblicati su Paragone, ma, come emerge dalla scena del convegno del “1° Convegno internazionale 
di Dentisti Dantisti” di Uccellacci e uccellini (1966), ne era rimasto profondamente toccato. La sua 
riscrittura della Divina Commediavenne di fatto interrotta nel 1965 — le aggiunte successive hanno lo 
scopo di giustificare formalmente quella serie di frammenti in risposta alla polemica con il Gruppo ’63
 (“Per una “Nota all’editore”, 1966), all’uscita di Letteratura italiana dell’Otto-Novecento di Contini
 (1974) e infine dare forma definitiva al progetto incompiuto con la Prefazione (1975). Oggi risulta 
chiaro che Segre e Garboli, e come loro molti altri critici, non potevano cogliere in pieno il senso 
dell’appropriazione di Dante nell’opera pasoliniana, non fosse altro perché La Divina Mimesis giaceva
 ancora in un cassetto e i riferimenti al realismo dantesco figuravano sparsi qua e là in vari documenti
 artistici e saggistici degli anni Cinquanta. Risulta invece chiaro oggi che “La volontà di Dante “a” 
essere poeta” non era che un frammento di un grande intertesto.
VI
1975. “La Divina Mimesis”. Molteplici connotazioni racchiude la parola “mimesi” nel rapporto 
Dante-Pasolini, ma il concetto emerge finalmente in modo inequivocabile nel titolo dell’opera 
pasoliana più dantesca, La Divina Mimesis(1975), dove la parola “mimesis” del titolo richiama la
 doppia accezione di “imitazione della Commedia” e di “imitazione della realtà, degli altri”. Il senso 
che Pasolini attribuiva a La Divina Mimesis è tuttavia ancora più specifico. “Divina mimesis”, 
imitazione divina, indicava quella vocazione poetica di diversità linguistica e culturale che aveva 
animato il progetto ideologico dell’autore per tutti gli anni Cinquanta e che Pasolini vedeva gravemente
 compromesso a causa di quella che chiamava l’“omologazione culturale e linguistica” dei primi anni
 Sessanta. “Divina mimesis” corrispondeva ad un mito poetico associato alla figura materna, 
equiparabile al paradiso, scrive l’autore nella Nota 2 (1964) posta in appendice della sua riscrittura 
della Commedia: ““La Divina Mimesis” o “Mammona” (o “Paradiso”) si presenta miticamente come 
l’ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale, l’italiano che serba viventi ed allineate in una reale 
contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della storia”. Questo ed altri frammenti de La 
Divina Mimesis sono chiaramente in dialogo con Nuove questioni linguistiche (1964), il saggio
 pasoliniano che aveva avviato il dibattito sulla “nuova questione della lingua”, presentato alla 
conferenza dell’Associazione Culturale Italiana a Torino il 27 novembre 1964. Se, come argomentava
 Pasolini in quell’intervento, la lingua nazionale che si era formata in quegli anni era una lingua creata 
dall’alto, dai mass-media e dal potere economico, diametralmente opposto era invece il progetto 
linguistico-culturale a cui Pasolini aveva fortemente creduto nel decennio precedente, ovvero quello di 
una lingua “lievitante dagli strati bassi”, mimetica del mondo popolare, della realtà quotidiana. Almeno 
nelle prime intenzioni, dunque, La Divina Mimesis avrebbe dovuto seguire la  linea di Ragazzi di vita
 (1955), come lasciava intendere anche il racconto La Mortaccia (1959), un primo abbozzo di 
riscrittura della discesa infernale di Dante, impersonato da una prostituta che si avventurava per le
 borgate romane. Eppure, la riscrittura pasoliniana non si presenta come l’“ultima opera scritta nell’
italiano non-nazionale”. I frammenti che Pasolini ha dato alle stampe “come un “documento” si 
limitano a raccogliere testimonianze ed intenzioni di un progetto lasciato volutamente incompiuto. 
Nel suo stato documentaristico, La Divina Mimesis rappresenta piuttosto la morte del realismo 
dantesco — una morte che Pasolini aveva già ufficialmente anticipato in quel celebre componimento
 letto alla presentazione dei finalisti del Premio Strega nel 1960, “In morte del realismo” — e il
 passaggio ad un nuovo ideale mimetico in poesia e nel cinema. “Bisogna cambiare strada”, diceva il 
Pasolini ‘60/Virgilio al Pasolini ‘50/Dante pellegrino, alla fine del I Canto de La Divina Mimesis.
“Non ho da scegliere […] vengo con te”.


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