Relazione su Petrolio, a cura LICEO GALVANI

“Il deserto era attraversato da una larga strada d'asfalto”:
la nuova periferia in Petrolio di P.P. Pasolini
Di Benedetta Maggi, V O – Liceo L. Galvani

La selva di palazzi, moderni nel loro asettico grigiore, all'avanguardia nel loro essere fitti, nel loro sfruttare ogni centimetro di suolo all'inverosimile, si diradano a mostrare il deserto che, poco oltre la periferia, è attraversato da un'unica strada: questa larga lingua d'asfalto unisce la città all'informe realtà del suburbio. Qui i ragazzi, attirati dai colori del progresso, si aggirano con sguardi vuoti su rombanti motociclette, rabbiosi e pallidi, i loro animi diversi da quelli dei vecchi che, seduti sugli scrostati poggioli delle vecchie case oltre questa strada, tacciono le loro dignitose consapevolezze. È il mondo dei capolinea degli autobus, le cui linee, sempre più lunghe, uniscono le vite di conducenti e fattorini che attendono il loro turno alla fermata: lo sguardo presuntuoso e indisponibile, essi non si parlano, il loro silenzio rotto solo dal vociare di una forzata e desolante allegria portata da un gruppo di giovani.
            Questa la dimensione che gli appunti 122 e 123 designano come la “nuova periferia” in Petrolio di Pier Paolo Pasolini: una realtà piatta e rabbiosa, invidiosa del mostruoso progresso che l'ha cambiata e deturpata, non ancora del tutto raggiunto esclusivamente per via di salari troppo bassi, che non impediscono però l'acquisto di abiti dai colori artificiali, unica, fredda e finta luce, nello scolorato panorama degli incarnati emaciati e delle case scrostate.
            Carla Benedetti, in Quattro porte per “Petrolio” (in riferimento agli appunti dal 71 al 74, la “Visione del Merda”), offre un'analisi di questa realtà che, desolata ai nostri occhi, appare spaventosa a Pasolini: non è infatti semplice “omologazione”, secondo Benedetti una rozza fotografia delle trasformazioni di questo “Nuovo potere” che è il progresso economico, ma un dilagante desiderio indotto con una capacità livellante tale da penetrare “nelle zone più intime degli individui, nel loro modo di essere, nella loro 'antropologia', plasmandone i corpi, la gestualità, l'espressione” (dal testo sopracitato). Un causato “dover essere” dunque, ma molto voluto, che si fa “pialla” sociale e che pertanto, oltre ad eliminare le ricchezze delle culture più primitive ed ingenue (“cruccio” tipicamente pasoliniano, all'origine della sua attività letteraria), si spande orizzontalmente in un abbaglio che, falsamente democratico, accorpa ed annulla, ma che abbaglio resta: la “larga strada” raccontata nell'appunto 122 illude il lettore di trovarsi di fronte a un ponte di solido accesso verso il miglioramento; ma essa “ha i margini slabbrati”, e ai lati vi sono rifiuti, e il tempo sembra qui essersi fermato nelle espressioni spente di tanti ragazzi cresciuti uguali.

D'altronde Pasolini lo lascia intendere proprio nell'esergo, citando Mandel'stam, il filo che Petrolio avrebbe seguito, ovvero l'ennesima testimonianza del suo teso rapporto coi tempi correnti, col progresso dell'Italia degli anni '70, col denaro che, allora (come ora) è e regala potere: ed egli, con questo “mondo del potere” non ha avuto “che vincoli puerili”. Legami dunque bambineschi, infantili, di fatto leggeri e, paradossalmente, sciolti: lacci che si fanno lenti quando non servono più allo scopo perseguito. Pasolini è qui il bambino che si scalza con noncuranza le scarpe nuove allacciate dalla madre, dopo aver corso, senza sciogliere le stringhe: l'intellettuale che, ottenuto ciò che di buono può dal demoniaco mondo in cui vive, se ne disfa e lo disprezza. “Demoniaca” è anche la tecnica narrativa che l'autore rivendica per sé nella stesura di Petrolio: “è un romanzo, ma non è scritto come sono scritti i romanzi veri […] io ho parlato al lettore in quanto io stesso, in carne ed ossa […] ho messo tale oggetto tra il lettore e me, e ne ho discusso insieme”, scrive a Moravia. L'opera risulta infatti complessa, difficile in lettura e comprensione sotto innumerevoli aspetti: l'asprezza delle parole, delle immagini, combinate a formare, nei passaggi nodali, allegorie del paradosso atte a spiegare proprio la dicotomia tra progresso economico e recessione culturale. La “forma” che Pasolini ricrea è mista di stilemi di saggio, di romanzo, di poesia, e di sapori: si ritrova una sorta di “verismo introspettivo” nel gusto provato dall'autore nel farsi specchio della realtà delle periferie e allo stesso tempo attento interprete degli effetti di questa realtà sugli animi. Il linguaggio, spesso empio e volgare, risulta a tratti poetico grazie ad allitterazioni, assonanze e  ripetizioni in un lavoro che si fa meta-testuale: “i capelli tagliati corti sulla fronte, e lasciati lunghissimi dietro le orecchie a penzolare fino sulle spalle, davano loro un'aria di feticci femminili[1] ridicoli e sinistri” (appunto 122). Nasce, nel lettore, disgusto; e cresce in lui la paura di ritrovarsi dentro la realtà descritta come matrice di questa desolazione: “[...] Le costellazioni di casamenti si erano incastrate l'una dentro l'altra, e i soli tagli che aprivano quella superficie compatta erano quelli dei cavalcavia, specole sul disordine, percorsi rabbiosamente da migliaia di automobili e di camion”. Proprio questo appunto (il 123) culmina con un'interpretazione pasoliniana della realtà, che vede tramontata ogni speranza di trovare rimedio alla situazione creatasi: “la mattina era già matura, il sole scomparso in una specie di velame”.




[1]     Allitterazione

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.