Antologia di interventi, a cura LICEO DA VINCI

Antologia di interventi su Pasolini letti in occasione della Giornata della lettura 29 ottobre 2015, liceo L. da Vinci 

Alberto Moravia
Prefazione a L’uomo come fine (1963)
I saggi riuniti in questo volume sono tutti saggi letterari. Questa affermazione sorprenderà perché il saggio che dà il titolo al libro non è un saggio letterario. Ma a parte il fatto che io sono un uomo di lettere e che qualsiasi cosa io scri­va non può non riguardare la letteratura, penso che L’uo­mo come fine riguardi la letteratura direttamente e imme­diatamente. L’uomo come fine è infatti una difesa dell’uma­nesimo in un momento in cui l’antiumanesimo è in voga. Ora la letteratura è per sua natura umanistica. Ogni difesa dell’umanesimo è dunque una difesa della letteratura.
Le ragioni per cui il mondo moderno è antiumanistico non sono misteriose. Ci sono certamente all’origine dell’an­tiumanesimo del mondo moderno un desiderio o meglio, una nostalgia di morte, di distruzione, di dissolvimento che potrebbero essere l’ultimo rigurgito della grande orgia sui­cida delle due guerre mondiali; ma c’è anche la ragione più normale, più solita, propria di certe disaffezioni: il logorio, la stanchezza, lo scadimento dell’umanesimo tradizionale; la sua immobilità, il suo conservatorismo; la sua ipocrisia di fronte agli eventi tragici della prima metà del secolo.
Per tutti questi motivi, vorrei sottolineare che L’uomo come fine non vuole affatto essere una difesa di questo uma­nesimo tradizionale ormai defunto; bensì un attacco all’an­tiumanesimo che oggi va sotto il nome di neocapitalismo; e un cauto approccio all’ipotesi di un nuovo umanesimo.
Ora sarebbe interessante vedere perché, con apparente contraddizione, l’antiumanesimo oggi coincida con le vittorie del neocapitalismo. Cioè con il prevalere di una conce­zione della vita apparentemente legata a valori umanistici.
Si potrebbe infatti pensare che questa concezione della vita la quale nel giro di un ventennio ha cambiato la faccia a buona parte del mondo e in particolare ha mandato ad effetto l’operazione umanistica di permettere a masse sem­pre più numerose di godere di quello che un tempo era pri­vilegio di pochi, mettendo a disposizione di queste masse una sterminata quantità di beni di consumo fabbricati in serie; si potrebbe pensare, dico, che una simile concezione della vita che ha reso più prosperi e dunque più liberi gli uomini dovrebbe essere chiamata umanistica.
E invece non è così. Sarebbe difficile trovare nel mondo moderno la robusta fiducia, la sanguigna pienezza, il ricco temperamento che furono propri all’umanesimo ai suoi al­bori. L’uomo del neocapitalismo con tutti i suoi frigoriferi, i suoi supermarket, le sue automobili utilitarie, i suoi mis­sili e i suoi set televisivi è tanto esangue, sfiduciato, devi­talizzato e nevrotico da giustificare coloro che vorrebbero accettarne lo scadimento quasi fosse un fatto positivo e ri­durlo a oggetto tra gli oggetti. Purtroppo però l’uomo del neocapitalismo non riesce a dimenticare la propria natura dopo tutto umana. Il suo antiumanesimo per questo non riesce ad essere positivo. Sotto apparenze scintillanti e astratte, si celano, a ben guardare, la noia, il disgusto, l’im­potenza e l’irrealtà.
Naturalmente la spia a questo particolare carattere del mondo moderno lo fanno, al solito, le arti. Esse rispecchia­no, in forma esasperata, i caratteri negativi dell’antiumane­simo neocapitalista. E quali sono questi caratteri? Direi che si possono riassumere in una sola parola: il nulla. Si os­serva infatti, nelle arti, soprattutto la scoperta, la rappre­sentazione, l’espressione, la descrittone e l’ossessione del nulla. Questo nulla non ha niente a che fare con il vecchio nihilismo anarchico il quale, in realtà, era soprattutto nega­zione e rivolta.
Questo nulla è un nulla autonomo e fine a se stesso che non nega niente e non si rivolta contro niente. Il nulla al quale allude Hemingway nella nota novella: A clean, well-lighted place: «Nostro niente che sei nel niente, niente sia il tuo nome e il tuo regno, niente la tua volontà in niente come in niente... e così sia».
Probabilmente all’origine del, diciamo così, nullismo delle arti sta la loro trasformazione in beni di consumo. S’inten­deva in passato che le arti fossero umanistiche in quanto erano l’espressione più alta, insieme completa e durevole, dell’uomo. Ma nelle arti moderne si esprime soprattutto l’alienazione dell’uomo ossia qualche cosa che è il contrario della completezza e della durata. Sembrerà strano che un’arte che ha nel cuore il nulla ossia l’alienazione, sia al tempo stesso un bene di consumo ossia un prodotto per le masse; ma la contraddizione è soltanto apparente. L’arte moderna, infatti, è un surrogato, cioè qualche cosa di non autentico, di contraffatto e di meccanico. Essa è tale perché si vuole mettere a disposizione delle masse ciò che un tem­po era soltanto di pochi, senza però realmente portare le masse al livello di quei pochi, anzi lasciandole nella loro alie­nata inferiorità. Così l’arte come prodotto di consumo ri­specchia una società divisa in classi, nella quale soltanto in apparenza tutto è a disposizione di tutti. In realtà ciò che è vera cultura resta il privilegio di pochi; per le masse ci sono i surrogati dell’industria culturale.
Da tutto questo, sia detto di passaggio, scaturisce l’uti­lità delle avanguardie artistiche nel mondo moderno. Esse hanno una funzione precisa nell’industria culturale in quan­to sono esse che fabbricano i prototipi a partire dai quali si può poi passare alla produzione in serie.
Ma perché questo? È proprio vero che le masse debbano per forza essere abbandonate all’antiumanesimo? lo dico di no. Vi potrebbero essere senz’altro domani delle arti uma­nistiche per delle masse umanistiche. Le masse antiuma­nistiche nel mondo moderno sono soltanto le masse del neocapitalismo. E questo perché il neocapitalismo è feticistico; e ogni feticismo non può non essere antiumanistico.
In che cosa consiste il feticismo del neocapitalismo? Il neocapitalismo, nella sua riscossa contro il comunismo, ha fatto un poco la stessa operazione che a suo tempo fece la Controriforma nella sua riscossa contro la Riforma: coll’estendere la rivoluzione industriale e allargare i consumi a collettività sempre maggiori, ha preso a prestito dall’avversario i mezzi; ma ha mantenuto - e come avrebbe potuto fare diversamente? - intatto il fine che era ed è tuttora il profitto, ossia un feticcio.
Così non dobbiamo illuderci. Avremo un sempre maggiore numero di prodotti di consumo ben fatti e a buon mercato, la nostra vita diventerà sempre più comoda, le nostre arti saranno sempre più accessibili alla massa, anche le più esigenti e difficili, anzi soprattutto queste; ma saremo sempre più disperati. E sentiremo sempre di più che nel cuore della prosperità c’è il nulla, ossia il feticismo il quale come tutti i feticismi è fine a se stesso e non può mettersi al servizio dell’uomo.




“Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975

Pier Paolo Pasolini
Il mio “Accattone” in TV dopo il genocidio

Quando Accattone è uscito, benché fossimo agli inizi di quello che veniva chiamato boom (parola che ci fa già sorridere come belle époque o stile aerodinamico), eravamo in un’altra età.
Un’età repressiva. Niente era in realtà cambiato – attraverso tutti gli anni ‘50 – di ciò che aveva caratterizzato l’Italia negli anni ‘40 e prima. La continuità tra il Regime fascista e il Regime democristiano era ancora perfetta. In Accattone due fenomeni di ta­le continuità sono impressionanti: primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia. [...]
Nel 1961 Accattone ha scatenato fenomeni di “razzismo” per la prima volta espliciti in Italia. [...] Nel 1961 i borghesi vedevano nel sottoproletariato il male, esattamente come i razzisti americani lo vedevano nell’universo negro. E allora, del resto, i sottoproletari erano negri” a tutti gli effetti. La loro cultura” - una cultura particolaristica”, nel quadro di una più vasta cultura a sua volta particolaristica”, quel­la contadina meridionale – dava ai sottoproletari romani non so­lo degli originali tratti” psicologici, ma addirittura degli origi­nali tratti” fisici. Creava una vera e propria razza”. Lo spettatore di oggi può constatarlo vedendo i personaggi di Accattone. Nessuno dei quali – lo ripeto per la millesima volta – era attore: e in quanto se stesso era proprio se stesso. La sua realtà veniva rappresentata attraverso la sua realtà. Quei “corpi” erano così nella vita come nello schermo.
La loro cultura, tanto profondamente diversa da creare ad­dirittura una razza”, forniva ai sottoproletari romani una mora­le e una filosofia da classe dominata”, che la classe dominante” si accontentava di dominare” poliziescamente, senza curarsi di evangelizzarla, cioè di costringerla ad assorbire la propria ideologia (nella fattispecie un ripugnante cattolicesimo puramente formale).
Lasciata per secoli a se stessa, cioè alla propria immobilità, quella cultura aveva elaborato valori e modelli di comportamento assoluti. Niente poteva metterli in discussione. Come in tutte le culture popolari, i “figli” ricreavano i “padri”: prendevano il loro posto, ripetendoli (cosa che costituisce il senso delle “caste”, che noi razzisticamente, e con tanto sprezzante razionalismo eurocentrico ci gratifichiamo di condannare). Mai nessuna rivoluzione interna a quella cultura, dunque. La tradizione era la vita stessa. Valori e modelli passavano immutabili dai padri ai figli. Eppure c’era una continua rigenerazione. Basta osservare la loro lingua (che ora non esiste più): essa era continuamente inventata, benché i modelli lessicali e grammaticali fossero sempre gli stessi. Non c’era un solo istante della giornata – nella cerchia delle borgate che costituivano una grandiosa metropoli plebea – in cui non risuonasse nelle strade o nei lotti una “invenzione” linguistica. Segno che si trattava di una cultura viva.
In Accattone tutto ciò è rappresentato fedelmente (e lo si vede soprattutto se si legge Accattone in un certo modo, escludendo la presenza del mio estetismo funebre). Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di uno di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler. Se io avessi fatto un lungo viaggio, e fossi tornato dopo alcuni anni, andando in giro per la grandiosa metropo­li plebea, avrei avuto l’impressione che tutti i suoi abitanti fos­sero stati deportati e sterminati, sostituiti, per le strade e nei lot­ti, da slavati, feroci, infelici fantasmi. Le SS di Hitler, appunto. I giovani, svuotati dei loro valori e dei loro modelli  come del loro sangue e divenuti larvali calchi di un altro modo di essere e di concepire l’essere: quello piccolo-borghese.
Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo “corpo” neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato se stessi in Accattone. Non troverei più un solo giovane che sapesse di­re, con quella voce, quelle battute. Non soltanto egli non avrebbe lo spirito e la mentalità per dirle, ma addirittura non le capirebbe nemmeno. [...] È difficile immaginare gente simpatica (al di fuori dei sentimentalismi borghesi) come quella del mondo di Accattone, cioè della cultura sottoproletaria e proletaria di Roma fino a dieci anni fa. II genocidio ha cancellato per sempre dalla faccia della terra quei personaggi. Al loro posto ci sono quei loro “sostituti”, che, come ho avuto già occasione di dire, sono invece i personaggi più odiosi del mondo.
Ecco perché dicevo che Accattone, visto come un reperto sociologico, non può che essere un fenomeno tragico.
Il lettore ha bisogno di dimostrazioni di quello che dico? Bene, se egli non frequenta (si capisce!) le borgate di Roma, legga la cronaca dei giornali. Quei “delinquenti” non sono mostri. Sono prodotti di un ambiente criminaloide: così come erano prodotti di un ambiente criminaloide i delinquenti di Accattone: ma quale differenza tra i due ambienti!
Sarei un imbecille se generalizzassi, la mia paradossalità non è che formale. Certo: metà e più dei giovani che vivono nelle borgate romane, o insomma dentro il mondo sottoproletario e proletario romano, sono, dal punto di vista della fedina penale, onesti. Sono anche bravi ragazzi. Ma non sono più simpatici. Sono tristi, nevrotici, incerti, pieni di un’ansia piccolo borghese; si vergognano di essere operai; cercano di imitare i “figli di papà”, i “farlocchi”. Sì, oggi assistiamo alla rivincita e al trionfo dei “figli di papà”. Sono essi che oggi realizzano il modello-guida.
Il lettore confronti personaggi come i pariolini neofascisti che hanno compiuto l’orrendo massacro in una villa del Circeo, e personaggi come i borgatari di Torpignattara che hanno ucciso un automobilista spaccandogli la testa sull’asfalto: a due livelli sociali diversi, tali personaggi sono identici: ma i modelli sono i primi, quei “figli di papà”, che così a lungo – per secoli – sono stati sfottuti e disprezzati dai ragazzi di borgata, che li consideravano nulli e pietosi. Mentre erano fieri di ciò che essi erano: della loro “cultura” che dava loro gesti, mimica, parole, comportamenti, sapere, termini di giudizio. […]
Tutti quelli che mi rimproverano la mia visione catastrofica in quanto totale (se non altro dal punto di vista antropologico) di ciò che è oggi l’Italia, mi deridono compassionevolmente perché non tengo conto che il materialismo consumistico e la criminalità sono fenomeni che dilagano in tutto il mondo capitalistico, e non solo in Italia. Vili, disonesti, sciocchi: possibile che non gli passi neanche lontanamente per il cervello che negli altri paesi dove tale peste dilaga ci sono dei compensi che ristabiliscono in qualche modo l’equilibrio? A New York, a Parigi, a Londra, ci sono delinquenti feroci e pericolosi (quasi tutti, toh! di colore o quasi): ma ospedali, scuole, case di riposo, manicomi, musei, cinema d’essai, funzionano perfettamente. L’unità, l’acculturazione, l’accentramento sono avvenuti in ben altri modi. Dei loro genocidi è stato testimone Marx più di un secolo fa. Che tali genocidi avvengano in Italia oggi, cambia sostanzialmente la loro figura storica. Accattone e i suoi amici sono andati incontro alla deportazione e alla soluzione finale silenziosamente, magari ridendo dei loro aguzzini. Ma noi testimoni borghesi?




“Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975

Italo Calvino
Delitto in Europa
Nessuno scambio di parti è più funesto di quello tra realtà e rappresentazione. A Los Angeles è in corso una inchiesta contro una nuova rete di distribuzione di film sadici che pare presentino squartamenti e uccisioni non simulati, pare girati in Argentina. A Roma, un film di or­rore in piena regola culmina con lo strazio di due ragazze e l’assassinio di una delle due in una villa del Circeo, ma non si tratta di finzione cinematografica, bensì di quello che un gruppo di giovani benestanti credono sia la vita.
L’aspetto nuovo dei delitti di Roma è il loro carattere pubblico: i responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira. Per poco che riusciamo a capire, dobbiamo guardare le cose in faccia e considerare l’esistenza di una società di mostri che convive perfettamente con le strut­ture della nostra società attuale.
[…] Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissi­vità assoluta, senza più l’ombra di una sfida alle costri­zioni repressive, si presentano con la sguaiataggine tru­culenta delle bravate da caffè, con la sicurezza di farla franca di strati sociali per cui tutto è stato sempre facile, una sicurezza che fa passare in meno che non si dica dai pestaggi all’uscita della scuola alle carneficine nelle ville del week-end.
I giornali hanno messo in rilievo che i protagonisti della vicenda appartengono all’ambiente dei picchiatori fascisti: c’era da aspettarselo, ma la genesi di una tale mentalità va certo al di là di una prevedibile etichetta politica. È una parte della nostra società in cui il di­sprezzo per la donna e per le persone di condizione so­ciale più modesta, la linea di condotta della sopraffazio­ne del più debole e del disprezzo di ogni senso civico, nel passare da una generazione all’altra, entra in corto circuito con le immagini di aggressività dei mass-media che porta a una identificazione senza riserve con tutto ciò che appare intollerabile e disumano.
Il neofascismo, proprio in questi anni in cui la crisi delle istituzioni dello Stato democratico poteva avvan­taggiarlo, ha dimostrato di non sapere andare più in là di una violenza cieca e senza prospettive, perché la sua base non si è estesa oltre i margini di questa parte disgregata e disgregante della società. Dobbiamo anche rallegrarci di questo fatto che, se rende il neofascismo continuamente pericoloso sul piano dell’incolumità fisi­ca delle persone, lo mantiene sinora inconsistente come proposta politica. Però il pericolo vero viene dall’esten­dersi nella società di strati cancerosi: c’è una parte della borghesia italiana che vive e prospera e prolifera senza il minimo senso di ciò che appartenere a una società signi­fica, come relazione reciproca tra gli interessi personali o di gruppo e quelli della collettività. Dire che non c’è che un passo dall’atonia morale e dalla irresponsabilità sociale alla pratica di seviziare e massacrare le ragazze con cui si esce alla sera può sembrare una delle solite ge­neralizzazioni esagerate dei moralisti, però abbiamo sot­to gli occhi il curriculum e il linguaggio di questi giova­notti, campioni rappresentativi – si dice – della clientela di un bar molto frequentato dalla gioventù del loro ceto.
Criminalità politica e criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive ed ottimistiche. Pro­babilmente anche il fanatismo politico più bruto è un gradino al di sopra delle capacità intellettive di costoro. Così come mi par certo che il sesso non interessa vera­mente questi figli dell’inflazione di immagini. Viviamo in un mondo in cui l’escalation nel massacro e nella umi­liazione della persona è uno dei segni più vistosi del di­venire storico: a questi giovani romani sta a cuore solo dimostrare una cosa ovvia: che i nazisti possono essere largamente superati in crudeltà in ogni momento.
[…] Nel nostro tessuto so­ciale, fragile da sempre, si aprono crepe paurose come quella da cui escono i giovani carnefici del Circeo. La società da noi resta sempre da costruire: e questo è chia­ro oggi ancora più che trent’anni fa. Ma è in atto una corsa col tempo: più la degenerazione si estende, più il terreno si fa molle per reggere qualsiasi fondamenta.
In altri paesi la crisi è la stessa, ma incide in uno spes­sore di società più solido. […]



“Il Mondo”, 30 ottobre 1975

Pier Paolo Pasolini
A Italo Calvino

Tu dici: «I responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira». 
Ma perché questo? 
Tu dici: «Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissività assoluta, senza più l’ombra di una sfida alle costruzioni repressive».
Ma perché questo? 
Tu dici: «il pericolo vero viene dall’estendersi nella nostra società di strati cancerosi».
Ma perché questo? 
Tu dici: «Non c’è che un passo dall’atonia morale e dalla irresponsabilità sociale (di una parte della borghesia italiana, tu dici) alla pratica di seviziare e massacrare».
Ma perché questo? 
Tu dici: «Viviamo in un mondo in cui l’escalation nel massacro e nella umiliazione della persona è uno dei segni più vistosi del divenire storico (onde criminalità politica e criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive e ottimistiche, tu dici)». 
Ma perché questo? 
Tu dici «I nazisti possono essere largamente superati in crudeltà in ogni momento».
Ma perché questo? 
Tu dici «In altri paesi la crisi è la stessa, ma incide in uno spessore di società più solido». 
Ma perché questo? 
Io sono più di due anni che cerco di spiegarli e volgarizzarli questi perché. E sono finalmente indignato per il silenzio che mi ha sempre circondato. Si è fatto solo il processo a un mio indimostrabile refoulement cattolico. Nessuno è intervenuto ad aiutarmi ad andare avanti ed approfondire i miei tentativi di spiegazione. Ora, è il silenzio, che è cattolico. Per esempio il silenzio di Giuseppe Branca, di Livio Zanetti, di Giorgio Bocca, di Claudio Petruccioli, di Alberto Moravia, che avevo nominalmente invitato a intervenire in una mia proposta di processo contro i colpevoli di questa condizione italiana che tu descrivi con tanta ansia apocalittica: tu, così sobrio. E anche il tuo silenzio a tante mie lettere pubbliche è cattolico. E anche il silenzio dei cattolici di sinistra è cattolico (essi, dovrebbero avere finalmente il coraggio di definirsi riformisti, o con più coraggio ancora luterani. Dopo tre secoli sarebbe ora).  
Lascia che ti dica che non è cattolico, invece, chi parla e tenta di dare spiegazioni magari dal vivo, e circondato dal profondo silenzio. Non sono stato capace di starmene zitto, come non sei capace di startene te zitto tu ora. «Bisogna aver molto parlato per poter tacere» (è uno storico cinese che, stupendamente, lo dice.) Dunque parla una buona volta. Perché?  
Tu hai steso un cahier de doléance in cui sono allineati fatti e fenomeni a cui non dai spiegazioni, come farebbe Lietta Tornabuoni o un giornalista sia pure indignato della Tv.
Perché?  
Eppure io ho anche da ridire sul tuo cahier, al di fuori della mancanza dei perché.  
Ho da ridire che tu crei dei capri espiatori, che sono: «parte della borghesia», «Roma», «i neofascisti». 
Risulta evidente da ciò che tu ti appoggi a certezze che valevano anche prima. Le certezze che ti dicevo in un’altra lettera che ci hanno confortato e anche gratificato in un contesto clerico-fascista. Le certezze laiche, razionali, democratiche, progressiste. Così come esse sono non valgono più. Il divenire storico è divenuto, e quelle certezze son rimaste com’erano. 
Parlare ancora come colpevole di «parte della borghesia» è un discorso antico e meccanico perché la borghesia, oggi, è nel tempo stesso troppo peggiore che dieci anni fa, e troppo migliore. Tutta. Compresa quella dei Parioli o di San Babila. È inutile che ti dica perché è peggiore (violenza, aggressività, dissociazione dall’altro, razzismo, volgarità, brutale edonismo) ma è inutile che ti dica perché è migliore (un certo laicismo, una certa accettazione di valori che erano solo di cerchie ristrette, votazioni al referendum, votazioni al 15 giugno). 
Parlare come colpevole della città di Roma, è ripiombare nei più puri anni cinquanta, quando torinesi, milanesi (friulani) consideravano Roma il centro di ogni corruzione: con aperte manifestazioni razzistiche. Roma con i suoi Parioli, non è affatto peggiore di Milano col suo San Babila, o di Torino.  
Quanto ai neofascisti (giovani) tu stesso ti sei reso conto che la loro nozione va immensamente allargata: e la possibile crudeltà nazista di cui parli (e di cui da tanto vado parlando io) non riguarda solo loro. 
Ho da ridire anche su un altro punto del “cahier senza perché”.  
Tu hai privilegiato i neofasciti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché sono borghesi. La loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio truculento della cronaca alla luce dell’interpretazione intellettuale, perché la loro classe sociale lo pretende. Ti sei comportato - mi sembra - come tutta la stampa italiana, che negli assassini del Circeo vede un caso che la riguarda, un caso, ripeto, privilegiato. Se a fare le stesse cose fossero stati dei “poveri” delle borgate romane, oppure dei “poveri” immigrati a Milano o a Torino, non se ne sarebbe parlato tanto in quel modo. Per razzismo. Perché i “poveri” delle borgate o i “poveri” immigrati sono considerato delinquenti a priori.  
Ebbene i “poveri” delle borgate romane e i “poveri” immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito, quello che è oggetto della tua “descrittività”. 
I giovani delle borgate di Roma fanno tutte le sere centinaia di orge (le chiamano “batterie”) simili a quelle del Circeo; e inoltre, anch’essi drogati.  
L’uccisione di Rosaria Lopez è stata molto probabilmente preterintenzionale (cosa che non considero affatto un’attenuante): tutte le sere, infatti, quelle centinaia di batterie implicano un rozzo cerimoniale sadico.  
L’impunità di tutti questi anni per i delinquenti borghesi e in specie neofasciti non ha niente da invidiare all’impunità dei criminali di borgata. (I fratelli Carlino, di Torpignattara, godevano della stessa libertà condizionale dei pariolini.) Impunità miracolosamente conclusasi in parte con il 15 giugno. 
Cosa dedurre da tutto questo? Che la “cancrena” non si diffonde da alcuni strati della borghesia (romana) (neofascista) contagiando il paese e quindi il popolo. Ma che c’è una fonte di corruzione ben più lontana e totale. Ed eccomi alla ripetizione della litania.  
È cambiato il “modo di produzione” (enorme quantità, beni superflui, funzione edonistica). Ma la produzione non produce solo merce, produce insieme rapporti sociali, umanità. Il “nuovo modo di produzione” ha prodotto quindi una nuova umanità, ossia una “nuova cultura” modificando antropologicamente l’uomo (nella fattispecie l’italiano). Tale “nuova cultura” ha distrutto cinicamente (genocidio) le culture precedenti: da quella tradizionale borghese, alle varie culture particolaristiche e pluralistiche popolari. Ai modelli e ai valori distrutti essa sostituisce modelli e valori propri (non ancora definiti e nominati): che sono quelli di una nuova specie di borghesia. I figli della borghesia sono dunque privilegiati nel realizzarli, e, realizzandoli (con incertezza e quindi con aggressività), si pongono come esempi a coloro che economicamente sono impotenti a farlo, e vengono ridotti appunto a larvali e feroci imitatori.
Di qui la loro natura sicaria, da SS. Il fenomeno riguarda così l’intero paese. E i perché sono ben chiari. Chiarezza che certo, lo ammetto, non risulta da questa tabella che ho qui stilato come un telegramma. Ma tu sai bene come documentarti, se vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che finalmente pretendo che tu faccia.  

NB. I politici sono difficilmente recuperabili a una tale operazione. La loro è una lotta per la pura sopravvivenza. Devono trovare ogni giorno un aggancio per restare attaccati e inseriti là dove lottano (per sé o per gli altri, non importa). La stampa rispecchia fedelmente la quotidianità, il vortice in cui sono presi e travolti. E rispecchia anche fedelmente le parole magiche, o i puri verbalismi, cui sono attaccati riducendovi le prospettive politiche reali (“morotei”, “dorotei”, “alternativa”, “compromesso”, “giungla retributiva”). I giornalisti autori di tale rispecchiamento sembrano essere complici di tale pura quotidianità, mitizzata (come sempre la “pratica”) in quanto “seria”. Manovre, congiure, intrighi, intrallazzi di Palazzo passano per avvenimenti seri. Mentre per uno sguardo appena un po’ disinteressato non sono che contorcimenti tragicomici e, naturalmente, furbeschi e indegni.  
I sindacalisti non possono essere di maggiore aiuto. Lama, sotto cui tutti i facitori di opinione hanno preso l’abitudine di accucciarsi come cagnette in fregola sotto il cane, non saprebbe dirci nulla. Egli è uguale e contrario, ossia contrario e uguale a Moro, con cui tratta. La realtà e le prospettive sono verbali: ciò che conta è un oggi arrangiato. Non importa se Lama è costretto a questo, mentre i democristiani vivono di questo. Oggi pare che solo platonici intellettuali (aggiungo: marxisti) - magari privi di informazione, ma certo privi di interesse e di complicità – abbiano qualche probabilità di intuire il senso di ciò che sta veramente succedendo: naturalmente però a patto che tale loro intuire venga tradotto – letteralmente tradotto – da scienziati anch’essi platonici, nei termini dell’unica scienza la cui realtà è oggettivamente certa come quella della Natura, cioè l’Economia politica.




“Corriere della Sera”, 4 novembre 1975

Italo Calvino
Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini
Non farò più in tempo a rispondere a quella lettera. Sul “Mondo” del 30 ot­tobre, Pasolini mi indiriz­zava una lettera aperta sulla violenza nel mondo d’oggi, che resterà uno dei suoi ultimi scritti. Polemiz­zava col mio articolo del «Corriere» sul delitto del Circeo, perché io descrivevo un processo di degra­dazione della società sen­za darne spiegazioni e so­prattutto senza parlare del­la spiegazione che da tem­po ne dava lui: il «consu­mismo» che distrugge tut­ti i valori precedenti e al loro posto instaura un mondo senza principi e spietato.
Durante la settimana scorsa, a chi mi chiedeva cosa aspettavo a risponde­re, mi venne da dire una battuta cinica: «Aspetto il prossimo delitto». Non si deve mai essere cinici, nemmeno per scherzo. Ap­pena la pronunciai mi resi conto che poteva essere una di quelle battute che non ci si ricorderà volen­tieri d’aver detto. Ma non mi fermai su questo pen­siero. Il mondo in cui avvengono i delitti sembra cosi lontano, rassicurantemente lontano, a chi si tro­va a scrivere dei delitti nella tranquillità del pro­prio studio. Ed ecco, sono passati pochi giorni. Non ha tardato a succedere, il delitto su cui il giornale mi chiede un nuovo arti­colo. Ma a Pasolini non posso più rispondere, la vittima è lui.
«Parlare di una parte della borghesia come col­pevole è un discorso an­tico e meccanico – scriveva Pasolini in quella let­tera aperta –. Se a fare le stesse cose fossero stati dei poveri delle borgate romane oppure dei poveri immigrati a Milano o a Tori­no, non se ne sarebbe parlato tanto e a quel modo… Perché i poveri delle bor­gate o i poveri immigrati sono considerati tutti de­linquenti a priori. Ebbene, i poveri delle borgate ro­mane e i poveri immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effet­tivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli, e con lo stesso identico spirito… Cosa de­durre da tutto questo? Che c’è una fonte di corruzione ben più lontana e totale. Ed eccomi alla ripetizione della litania…».
La drammaticità di que­sto suo appello, come di tanti suoi scritti analoghi degli ultimi tempi, non può non colpirci oggi, come se avesse voluto avvertirci di un pericolo che sentiva incombere e a cui egli pure correva continuamente in­contro. In ciò egli confer­mava l’immagine che sem­pre aveva voluto darci di sé: di martire-testimone di una sua verità, di apporta­tore di scandalo ai fini di una sua predicazione mo­rale.
«Sono indignato del si­lenzio che mi ha sempre circondato» diceva anco­ra. Non era vero; mai co­me in questi tempi il suo discorso ininterrotto pro­vocava pubbliche discus­sioni, con le sue illumina­zioni di verità e le sue nu­vole d’ombra. (E non era neanche vero che io non avessi detto la mia; solo che io la facevo entrare in altri discorsi, senza nomi­narlo mai; lui capiva benissimo che lo facevo per non dare soddisfazione al suo personalismo, ma in­vece di ripagarmi con la stessa moneta, mi prende­va di petto, come era nel suo temperamento).
Ora alla personalizzazio­ne non potrei più sfuggire, perché è della sua morte che si tratta; ma tanto me­no voglio farlo. Lui legava sempre il discorso generale alla sua esperienza vis­suta; e questa mescolanza di vita e di opera si ritro­va nei dati della sua morte. Ma nonostante che egli te­nesse a non nascondere nulla, io credo che la sua vita privata riguardi lui solo; noi non possiamo giu­dicarlo. Quanto sappiamo della sua morte è di una semplicità rudimentale, ma quando si arriva al mo­mento dell’uccisione tutto resta ancora da spiegare. Direi che, sia se i fatti so­no tutti qui, sia se nuovi dati interverranno a com­plicare la storia, continue­remo per un pezzo a do­mandarci l’ultimo perché.
Su un passo della sua lettera soprattutto ero pron­to a dichiararmi d’accordo se avessi scritto in tempo la risposta: «Risulta evi­dente da ciò che tu ti ap­poggi a certezze che vale­vano anche prima. Le cer­tezze laiche, razionali, de­mocratiche, progressiste. Così come sono esse non valgono più. Il divenire storico è divenuto, e quel­le certezze sono rimaste com’erano». Ma detto questo, consta­tato che il mondo che è venuto fuori è molto più complicato e peggiore di quanto tutte le previsioni razionali annunciassero (i fenomeni legati a una urbanizzazione caotica, a una economia sbilanciata, a un modo di vita in cui la man­canza di mestieri e di pro­spettive è comune ai vari livelli di vita delle classi sociali, ed è soprattutto drammatica nei giovani) non è possibile più idealizzare un mondo perduto che portava in sé tutti i germi della presente corruzione.
Le civiltà più arretrate solo quando costituivano un mondo organico, una totalità armonica potevano avere dei vantaggi sulla nostra. Nel nostro passato immediato era solo qualche sopravvivenza degradata di altre civiltà che ci portavamo dietro, e che anziché prepararci al domani lo rendeva più catastrofico. Le cosiddette so­cietà avanzate in cui vivia­mo sono in crisi in tutti i continenti, anche se le capacità di reagire alla crisi sono diverse. Forse sarà impossibile un vero sviluppo se non di tutto il pianeta insieme, ma oggi sem­bra che ne siamo ancora lontani. Dobbiamo guardare di più a quanto sta venendo nel resto del mondo e pensare di più al nostro futuro, alle trasformazioni possibili del nostro presente.
La violenza che ora esplode nella nostra socie­tà senza forma è un fenomeno nuovo in quanto le società dei tempi passati incanalavano le proprie spinte aggressive verso esiti spesso altrettanto spietati ma collettivi. Solo una trasformazione in energie dirette verso fini comuni ci salverà dalla forza di­struttiva della violenza. So che dico cose terribilmen­te generiche e forse bana­li, ma è un punto di me­todo che voglio segnare. Voglio dire che le scuole sono in crisi in tutto il mondo, ma nel resto del mondo bene o male funzio­nano e da noi no. E che l’Italia può temere di di­ventare per almeno cin­quant’anni una periferia coloniale, una enorme borgata disoccupata e violenta.
Grande merito di Pasolini scrittore, che volle sempre essere insieme uomo dello scandalo e moralista, è l’aver posto il problema di una morale nuova che inglobi anche le zone del vissuto considerate oscure, che la morale e l’ideologia fino a oggi tendono a escludere. Non è un compito facile, e tutte le esemplificazioni oggi correnti appaiono frettolose, quelle che Pasolini rifiutava co­me quelle che egli proclamava. Certo più di una generazione si romperà la testa, prima di costruire una nuova morale che valga per tutti, anche per chi ora ne è escluso. Ma, pur­ché si arrivi in tempo, questa sarà la via più bre­ve per dare un senso alle testimonianze sulla violenza che Pasolini ha voluto darci con la sua opera e la sua morte.



“Il Manifesto”, 4 novembre 1975

Franco Fortini
In morte di Pasolini

Il solo modo decente di parlare di Pasolini, in mezzo al vocio autopunitivo di questi giorni, è quello di leggerlo. Il quotidiano che mi chiede queste parole ha avuto, rispetto agli altri giornali italiani, il grande merito di aver sempre lasciato intendere che, della poesia, non gliene importava nulla; e così facendo, di interpretare l’animo dei suoi lettori e ispiratori. Ho creduto per alcuni anni che a questo corrispondesse, più in profondo, un’azione che mirasse, per sue vie, alla medesima meta della poesia. Mi rendo conto oggi che non è così; o, se lo è, questo avviene su una tale distanza che, in pratica, come dice Lu Hsun, «i politici desiderano uccidere i letterati».
C’è una qualità umana che odia la poesia, che sopporta a fatica la letteratura, che non sa e non vuole sapere quale luogo assegnarle nella città presente e futura. Ci si commuove per la morte di Pasolini più che per quella di un altro qualsiasi militante solo perché era l’autore di qualcosa che è, o può, diventare nostro; e allora questo qualcosa, questa eredità, guardiamola. Non vogliono saperlo perché questo farebbe crollare molte miserabili speranze e certezze. Non capiscono che quel crollo li indebolirebbe solo in apparenza, mentre in realtà li farebbe più forti contro chi sfrutta e strazia. Non capiscono che non siamo, noi poeti, i vostri nemici e che, se chiediamo qualche volta pietà per i nostri errori, è perché invero è il nostro modo di chiedere pietà anche per gli errori vostri. Per questo non ho nulla da dire per la morte di Pasolini che non sia stato detto in questi giorni, spesso egregiamente, dai miei colleghi in letteratura; fuor del consiglio di prendere i suoi libri di versi e di capirli. Gli sono stato amico per molti anni; avverso per altri; sempre ho cercato di intenderlo e amarlo. Ho in comune con lui la divisione, la duplicità di cui si fa, quando si fa, la poesia. Nel testo autentico d’altronde, come nell’attimo della morte, coincidono elezione e destino, scelta e inevitabilità. Meno commozione per Pasolini, più amore e intelligenza per quello che egli ci ha detto.



Franco Fortini
da L’ospite ingrato I (1966)


[Per Pasolini]
Ormai se ti dico buongiorno ho paura dell’eco,
tu, disperato teatro, sontuosa rovina.

Eppure t’aveva lasciata, il mio verso, una spina.
Ma va’ senza ritorno, perfetto e cieco.


[Diario linguistico]
Non imiterò che me stesso, Pasolini.
Più morta di un inno sacro
la sublime lingua borghese è la mia lingua.
Non conoscerò che me stesso.
La mia prigione
vede più della tua libertà.



 “l’Espresso”, 9 novembre 1975

Alberto Moravia
Ma che cosa aveva in mente?
Chi era, che cercava Pasolini? In principio c’è stata, perché non ammetterlo?, l’omosessualità, intesa però nella stessa maniera dell’eterosessualità: come rapporto con il reale, come filo di Arianna nel labirinto della vita. Pensiamo un momento solo alla fondamentale importanza che ha sempre avuto nella cultura occidentale l’amore; come dall’amore siano venute le grandi costruzioni dello spirito, i grandi sistemi conoscitivi; e vedremo che l’omosessualità ha avuto nella vita di Pasolini lo stesso ruolo che ha avuto l’eterosessualità in quella di tante vite non meno intense e creative della sua. 
Accanto all’amore, in principio, c’era anche la povertà. Pasolini era emigrato a Roma dal Nord, si guadagnava la vita insegnando nelle scuole medie della periferia. È in quel tempo che si situa la sua grande scoperta: quella del sottoproletariato, come società rivoluzionaria, analoga alle società protocristiane, ossia portatrice di un inconscio messaggio di ascetica umiltà da contrapporre alla società borghese edonista e superba. Questa scoperta corregge il comunismo, fino allora probabilmente ortodosso di Pasolini; gli dà il suo carattere definitivo. Non sarà, dunque, il suo, un comunismo di rivolta, e neppure illuministico; e ancor meno scientifico; né insomma veramente marxista. Sarà un comunismo populista, “romantico”, cioè animato da una pietà patria arcaica, un comunismo quasi mistico, radicato nella tradizione e proiettato nell’utopia. È superfluo dire che un comunismo simile era fondamentalmente sentimentale (do qui alla parola “sentimentale” un senso esistenziale, creaturale e irrazionale).
Perché sentimentale? Per scelta, in fondo, culturale e critica; in quanto ogni posizione sentimentale consente contraddizioni che l’uso della ragione esclude. Ora Pasolini aveva scoperto molto presto che la ragione non serve ma va servita. E che soltanto le contraddizioni permettono l’affermazione della personalità. Ragionare è anonimo; contraddirsi, personale. Le cose stavano a questo punto quando Pasolini scrisse Le ceneri di Gramsci, La religione del nostro tempo, Ragazzi di vita, Una vita violenta e esordì nel cinema con Accattone. In quel periodo, che si può comprendere tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, Pasolini riuscì a fare per la prima volta nella storia della letteratura italiana qualche cosa di assolutamente nuovo: una poesia civile di sinistra. La poesia civile era sempre stata a destra in Italia, almeno dall’inizio dell’Ottocento a oggi, cioè da Foscolo, passando per Carducci su su fino a d’Annunzio. I poeti italiani del secolo scorso avevano sempre inteso la poesia civile in senso repressivo, trionfalistico ed eloquente. Pasolini riuscì a compiere un’operazione nuova e oltremodo difficile: il connubio della moderna poesia decadente con l’utopia socialista. Forse una simile operazione era riuscita in passato soltanto a Rimbaud, poeta della rivoluzione e tuttavia, in eguale misura, poeta del decadentismo. Ma Rimbaud era stato assistito da tutta una tradizione giacobina e illuministica. La poesia civile di Pasolini nasce invece miracolosamente in una letteratura da tempo ancorata su posizioni conservatrici, in una società provinciale e retriva.
Questa poesia civile raffinata manieristica ed estetizzante che fa ricordare Rimbaud e si ispirava a Machado e ai simbolisti russi, era tuttavia legata all’utopia di una rivoluzione sociale e spirituale che sarebbe venuta dal basso, dal sottoproletariato, quasi come una ripetizione di quella rivoluzione che si era verificata duemila anni or sono con le folle degli schiavi e dei reietti che avevano abbracciato il cristianesimo. Pasolini supponeva che le disperate e umili borgate avrebbero coesistito a lungo, vergini e intatte con i cosiddetti quartieri alti, fino a quando non fosse giunto il momento maturo per la distruzione di questi e la palingenesi generale: pensiero, in fondo, non tanto lontano dalla profezia di Marx secondo il quale alla fine non ci sarebbero stati che un pugno di espropriatori e una moltitudine di espropriati che li avrebbero travolti. Sarebbe ingiusto dire che Pasolini aveva bisogno, per la sua letteratura, che la cosa pubblica restasse in questa condizione; più corretto è affermare che la sua visione del mondo poggiava sull’esistenza di un sottoproletariato urbano rimasto fedele, appunto, per umiltà profonda e inconsapevole, al retaggio di un’antica cultura contadina. 
Ma a questo punto è sopravvenuto quello che, in maniera curiosamente derisoria, gli italiani chiamano il “boom”, cioè si è verificata ad un tratto l’esplosione del consumismo. E cos’è successo col “boom” in Italia, e per contraccolpo nella ideologia di Pasolini? È successo che gli umili, i sottoproletari di Accattone e di Una vita violenta, quegli umili che nella Passione secondo Matteo Pasolini aveva accostato ai cristiani delle origini, invece di creare i presupposti di una rivoluzione apportatrice di totale palingenesi, cessavano di essere umili nel duplice senso di psicologicamente modesti e di socialmente inferiori per diventare un’altra cosa. Essi continuavano naturalmente ad essere miserabili, ma sostituivano la scala di valori contadina con quella consumistica. Cioè, diventavano, a livello ideologico, dei borghesi.
Questa scoperta della borghesizzazione dei sottoproletari è stata per Pasolini un vero e proprio trauma politico, culturale e ideologico. Se i sottoproletari delle borgate, i ragazzi che attraverso il loro amore disinteressato gli avevano dato la chiave per comprendere il mondo moderno, diventavano ideologicamente dei borghesi prim’ancora di esserlo davvero materialmente, allora tutto crollava, a cominciare dal suo comunismo populista e cristiano. I sottoproletari del Quarticciolo erano, oppure aspiravano, il che faceva lo stesso, ad essere dei borghesi; allora erano o aspiravano a diventare borghesi anche i sovietici che pure avevano fatto la rivoluzione nel 1917, anche i cinesi che avevano lottato per più di un secolo contro l’imperialismo, anche i popoli del Terzo mondo che una volta si erano configurati come la grande riserva rivoluzionaria del mondo. Non è esagerato dire che il comunismo irrazionale di Pasolini non si è più risollevato dopo questa scoperta. Pasolini è rimasto, questo sì, fedele all’utopia, ma intendendola come qualche cosa che non aveva più alcun riscontro nella realtà e che di conseguenza era una specie di sogno da vagheggiare e da contemplare ma non più da realizzare e tanto meno da difendere e imporre come progetto alternativo e inevitabile. 
Da quel momento Pasolini non avrebbe più parlato a nome dei sottoproletari contro i borghesi, ma a nome di se stesso contro l’imborghesimento generale. Lui solo contro tutti. Di qui l’inclinazione a privilegiare la vita pubblica, purtroppo borghese, rispetto alla vita interiore, legata all’esperienza dell’umiltà. Nonché una certa ricerca dello scandalo non già a livello del costume ma a quello della ragione.
Pasolini non voleva scandalizzare la borghesia, troppo consumistica ormai per non consumare anche lo scandalo. Lo scandalo era diretto contro gli intellettuali, che, loro sì, non potevano fare a meno di credere ancora nella ragione. Di qui pure un continuo intervento nella discussione pubblica, basato su una sottile e brillante ammissione, difesa e affermazione delle proprie contraddizioni. Ancora una volta Pasolini si teneva alla propria esistenzialità, alla propria creaturalità. Solo che un tempo l’aveva fatto per sostenere l’utopia del sottoproletariato salvatore del mondo; e oggi lo faceva per criticare la società consumista e l’edonismo di massa. Aveva scoperto che il consumismo era penetrato ormai ben dentro l’amata civiltà contadina. Ciononostante, questa scoperta non l’aveva allontanato dai luoghi e dai personaggi che un tempo, grazie ad una straordinaria esplosione poetica, l’avevano così potentemente aiutato a crearsi la propria visione del mondo. Affermava in pubblico che la gioventù era immersa in un ambiente criminaloide di massa; ma in privato, a quanto pare, si illudeva pur sempre che ci potessero essere delle eccezioni a questa regola. La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché egli ne aveva già descritto, nei suoi romanzi e nei suoi film, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile.







 “L’Espresso”, 9 novembre 1975

Umberto Eco
Perché non eravamo sempre d’accordo
Quando ho sentito la notizia alla radio ho avuto un primo moto di rimorso: mesi fa, a proposito del suo articolo sull’aborto, lo avevo attaccato con cosciente cattiveria, e lui se ne era molto risentito, contrattaccando (una sola battuta nel corso di un’intervista) con altrettanta cattiveria. E al saperlo morto ammazzato, così bruttamente, ho avuto un sentimento di colpa, come se quei segni sul suo corpo fossero le tracce di un lungo linciaggio, a cui anch’io avevo preso parte. Poi mi sono reso conto che non era quello il punto. Lottatore per vocazione, per rabbia e per baldanza, Pasolini l’attacco lo cercava, lo stimolava quando la reattività pubblica si assopiva, si sentiva vivo solo quando poteva dire: “Perché mi sparate addosso?”. 
Lui sosteneva: la società mi lincia perché sono diverso, e certo il primo moto di ribellione gli era venuto dal sentirsi respinto ai margini per quella sua diversità sessuale che esponeva a tutti i venti con esasperata sincerità. Ma questa stessa sincerità lo aveva, per così dire, autorizzato a gestire pubblicamente la sua diversità.
Certo, la società non perdona mai del tutto ai diversi, se non li punisce li ricatta con l’ironia, ma lui avrebbe almeno potuto sentirsi in fase di armistizio. E invece dall’esperienza originaria della diversità sessuale, gli era venuto l’altro impulso (forse più sublimato, o più socializzato, non so) a crearsi una situazione di diversità ad oltranza. Con un fiuto rabbioso per le posizioni impopolari. Una vocazione alla emarginazione, dunque, a dispetto del successo, anzi usando il successo come frombola per lanciare altre provocazioni che obbligassero gli altri a sparargli addosso. Un gioco pericoloso, sul filo della corda, dove le idee che metteva in questione contavano sino a un certo punto, talora erano tipiche scelte teatrali: il gioco del Bastian contrario. Si diceva una volta, per scherzo, che un giorno avrebbe affermato che i poveri sono cattivi per avere la soddisfazione di vedersi svillaneggiato da tutti: bene, lo ha fatto. 
Era qualcosa di più di una vocazione masochistica, qualcosa di più ambizioso e di più tragico: una mimesi mistica del Crocifisso, naturalmente a testa in giù, nella scia di quegli gnostici che asserivano che il Figlio, per arrivare alla purificazione, avesse dovuto commettere tutti i peccati possibili. Se questo è vero, egli era l’ultima personificazione di un superomismo romantico, il poeta che vive di persona il proprio ideale estetico; salvo che l’esteta della decadenza incarnava sogni di gloria fastosa ed egli invece sogni di spaesamento e persecuzione; quindi se modello c’era, era Rimbaud e non d’Annunzio: anche nel successo egli aveva scelto di testimoniare l’emarginazione.
La conoscenza primitiva della emarginazione sua e altrui lo aveva segnato per la vita, così che non poteva più rifiutarsi a questo gioco, anche se la società era disposta a integrarlo. Anche in questo è stato contraddittoriamente coerente, astuto come il serpente e candido come la colomba. Ciò che lo limita è semmai il fatto che avesse deciso di emarginarsi come testimone dei propri umori e non come portavoce di una coscienza collettiva. Di qui l’esito oggettivamente regressivo di certi suoi appelli eversivi: il confondere la società futura con una società “naturale”, adolescente e incontaminata solo nei suoi ricordi privati. Che è poi il rischio del poeta quando presenta la memoria come utopia. Di qui le sue lucciole pauperistiche, i paradossi di un paternalismo preindustriale tutto sommato più “naturale” del consumismo tecnologico. Ma è che la violenza positiva del suo messaggio non stava nei contenuti, bensì negli effetti di cattiva coscienza che riusciva a produrre. Erano un pretesto per essere rintuzzato e testimoniare così che l’emarginazione esisteva ancora. Segno di contraddizione, il suo genio consisteva nell’impostare il gioco in modo che a contestarlo ci si cadeva dentro. Anche ora, dopo la sua morte. All’obiezione: “Sei morto come uno dei tuoi personaggi, non sei contento?”, egli risponderebbe: “Sono morto, siete contenti?”. E a dirgli: “Hai cercato di mostrarci che il mondo della borgata selvaggia del dopoguerra era più puro e mite di quello della borgata consumistica, e sei morto in un episodio da borgata all’antica”, egli obietterebbe: “Parlavo della violenza di oggi e sono morto oggi, mi ha ucciso la vostra violenza che mi ha spinto a una ricerca impossibile”.
Allora, per uscire dal suo gioco, non resta che vedere se si può utilizzare la sua morte come lezione che non riguardi lui solo. Ci provo. Egli ci ha ripetuto che c’erano dei diversi respinti ai margini, e che non avremmo mai capito appieno la loro sofferenza. La sua morte ci ricorda che, per quanto rispettato dalla società, un diverso deve pur sempre tentare la sua ricerca in luoghi oscuri, dove c’è violenza, rabbia e paura (la stessa del ragazzetto che fugge come un pazzo sulla macchina della sua vittima). E se i diversi che hanno il coraggio di definirsi tali devono ancora rifugiarsi ai margini, come i diversi che hanno paura, questo significa che la società non ha ancora imparato ad accettare né gli uni né gli altri, anche se fa finta di sì. Certo Pasolini avrebbe potuto permettersi di vivere la sua diversità altrove che non alla macchia. Può darsi abbia voluto continuare a farlo per orgoglio. Ora ci impone un esame di coscienza fatto con umiltà.


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