DANIELA BROGI da Leparoleelecose.it
«Mehr Licht! Mehr Licht!»
Negarlo è difficile: Buongiorno, notte, (Filmalbatros,
2003), di Marco Bellocchio, è una delle opere più belle del cinema italiano
degli anni Zero. Il film è liberamente ispirato al memoriale dell’ex terrorista
Anna Laura Braghetti Il prigioniero(Mondadori, 1988), e tanto per cominciare è
la prova che si può rifare un ottimo lavoro anche a partire da un libro brutto
e ridicolo. Com’è noto, Bellocchio rinarra la vicenda del sequestro Moro, ma
uno degli aspetti più originali del film consiste nella scelta di condurre il
racconto per lo più attraverso le molte rappresentazioni e teorie che nel corso
degli anni sono state date sull’affaire Moro. Così, per
esempio grazie ai filmati di repertorio, oppure usando la televisione sempre
accesa nel covo di via Montalcini come presenza chiave della vicenda, Buongiorno, notte contiene «una
rete complessa di allusioni ad altri film e persino a se stesso (l’elemento
autoreferenziale di una sceneggiatura, intitolata proprio Buongiorno, notte, scritta da un
personaggio del film) che dimostrano che non c’è un diretto accesso alla
comprensione della storia, ma che tale comprensione viene costruita tramite la
narrazione e la rappresentazione»[1].
Oltre tutto, anche il titolo è davvero bello, e indimenticabile: Buongiorno, notte, è dichiaratamente
ispirato alla poesia di Emily Dickinson Good Morning – Midnight-[2], nella
traduzione di Nicola Gardini (Crocetti, Milano 2001), che è stato il primo a
usare la forma “Buongiorno notte“, potenziando la capacità smisurata di
tempo-spazio contenuta in quelle due parole che vivono avanzando all’indietro.
L’effrazione
dei principî di non contraddizione e asimmetria che definiscono il pensiero
sistematico diurno; la regressione all’oscurità notturna – in senso temporale,
visivo, mentale, acustico – per alludere alle vicende del terrorismo italiano
tra i fatti di Piazza Fontana (1969) e la strage della stazione di Bologna
(1980), e soprattutto l’uso della metafora del buio per nominare l’evento (il
sequestro e l’uccisione di Aldo Moro) che più di tutti ha fissato quell’epoca
nella memoria e nell’inconscio italiani: tutto ciò, a ripensarci, non arriva a
Bellocchio da un immaginario mai attivato in precedenza, perché intanto, appena
si cominci a stare dentro questo ‘effetto notte’, torna subito negli occhi e
nella mente anche la fortunata inchiesta televisiva in diciassette puntate di
Sergio Zavoli La notte della Repubblica (passata per la prima volta su
RAI2 dal 12 dicembre 1989 al 11 aprile 1990), poi diventata anche un libro
(ERI, Mondadori, 1989).
Oppressione e buio, le due condizioni emotive e sensoriali che
sembrano più naturalmente connotare il clima di quegli anni, si ridefiniscono,
nel titolo scelto da Zavoli, a partire da un nuovo orizzonte al di fuori del
buio: per via di una ricostruzione che intende riportare alla luce «muovendo
dalla cronaca e autenticandola con le testimonianze»[3]; La notte della
Repubblica è tesa al ristabilimento di un discorso autorevole intorno
alle tenebre; la dominante del nero sottomesso al controllo è assecondata anche
dalle immagini che scorrono nella sigla (che si può vedere qui) e dal set televisivo
– per cui rimando all’analisi di Pezzini[4]; e
tuttavia, anche di quell’operazione resiste soprattutto l’effetto cupo di
tenebra, che sovrasta tutti gli altri toni espressivi e discorsivi – come,
tornando alla sigla, càpita alla musica di accompagnamento (composta da Gianni
Marchetti), dove la melodia triste intonata dal pianoforte diventa angosciosa e
crea un senso di smarrimento appena si aggiunge nel sottofondo
l’accompagnamento degli archi che ripetono incessantemente la stessa nota.
Soltanto un ulteriore esempio (non certo unico): il titolo del
libro di Mario Calabresi (figlio del commissario ucciso nel 1972): Spingendo la notte più
in là (2007),
che conferma quanto il motivo dell’oscurità sia stato, sia il punto cieco
attorno al quale sembra dover gravitare ogni discorso degli anni e sugli anni
del terrorismo. Ecco però che, senza stare a continuare il catalogo, può valere
la pena di porre la domanda plausibile a monte di tutto il resto: da dove
arriva, per quali voci, o strade questo cortocircuito semantico, simbolico e
memoriale?
Invece di avere un’origine esplicita, come l’espressione “anni
di piombo” derivata dalla (controversa[5])
traduzione italiana del titolo del film (Die bleierne Zeit) di Margarethe Von
Trotta, Leone d’Oro 1981, la metafora dell’oscurità come pratica discorsiva e
mentale, o anche come forma di vita prediletta dalle narrazioni del terrorismo
non pare che sia ancora stata molto considerata. La prima importante ragione
certamente ha a che fare con la sua stessa condizione di strettissima parentela
con il campo dell’immaginario – che è cosa diversa dal campo tematico[6], perché
l’immaginario è una zona spesso ambigua, fantasmatica, e dai confini molto meno
pacificati e chiari, ossia meno delimitabili con nettezza, come spiega bene
Donnarumma in una presentazione delle sue ricerche sulla narrativa del
terrorismo[7].
Andando poi a ritroso, non mancano certo grandi testi che, nell’arco
del Novecento (ma il discorso in parte vale già perI demonî), non abbiano usato
il topos della notte come metafora di un blackout mentale,
morale ed esperienziale, della vita come della storia: pensiamo a Voyage au bout de la
nuit (1932);
o all’orrore del campo di concentramento raccontato in La nuit (1958) di Eli Wiesel
(«Jamais je n’oublierai cette nuit, la première nuit de camp, qui a fait de ma
vie une nuit longue et sept fois verrouillée»[8]); o al
verso di Brecht «Wirklich, ich lebe in finsteren Zeiten!» [Davvero, vivo in
tempi bui![9]] riecheggiato anche
nel discorso pronunciato da Hannah Arendt nel 1959 Von der Menschlichkeit
in finsteren Zeiten. Rede über Lessing [L’umanità in tempi bui. Riflessioni su
Lessing[10]]. Ma al 1955 risale
pure Nuit et brouillard il documentario sulla Shoah diretto da
Alain Resnais (e che recupera nel titolo la frase tedesca Nacht und Nebel usata per
indicare la realtà dei campi concentrazionari e delle camere a gas).
Insomma la metafora della tenebra e dell’oscurità (che
naturalmente ha anche una fortissima ascendenza biblica, sempre che sia
possibile o giusto dare ancora per scontata la familiarità di questo codice),
questa metafora più volte, nel ventesimo secolo, è tornata a fissare situazioni
di accecamento della coscienza, della storia, della vita: è un dato ovvio – «vi
era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo nel cuore degli uomini
era buio. Buio come una notte di tempesta su un oceano di pece»[11].
Ancora però attende spiegazioni più chiare l’altro dato da cui
siamo partiti, ovvero il fatto che, tanto all’epoca degli eventi, quanto
attraverso lo sguardo di poi, tra la strage di piazza Fontana e il ventennio
successivo la realtà civile e politica italiana si è quasi sempre narrata ed è
stata narrata (narrativizzata) attraverso la notte: che non è più un modo
possibile tra gli altri, ma diventa un’icona assoluta: un dispositivo
totalizzante di condensazione dei significati.
L’immaginario, come si accennava, difficilmente conosce un punto
alfa, un grado zero a partire dal quale i concetti si articolano in maniera
lineare e ordinata: è una cultura di profondità, tanto nel senso di una trama
interna complessa attorno a cui prendono vita immagini, sintomi e forme, quanto
nel senso di un mondo di figure e significati spesso dai contorni
offuscati, di cui non sempre si può individuare l’ombelico, e questa è una
delle ragioni per cui talora le vicende dell’immaginario possono intrecciarsi
con quelle di un trauma, come racconta ad esempio, per rimanere in argomento,
un film come Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani.
Un testo, c’è, tuttavia, che può essere considerato non dico
come l’origine ma come punto di coagulazione importante all’interno di questo
grumo di reciproci scambi e reversibilità tra la serie delle vicende
degli anni di piombo e la serie simbolica del buio e
dell’oscurità: si tratta del famoso articolo pubblicato da Pasolini sul
«Corriere della Sera» del 1° febbraio 1975 col titolo Il vuoto del potere in
Italia,
ma, com’è noto, quello scritto ha fatto epoca ed è passato alla storia
come L’articolo delle lucciole. Confluito poi negli Scritti corsari, l’articolo delle
lucciole è uno dei più noti e amati testi pasoliniani; proprio ad
esso è dedicato pure il saggio di Georges Didi-Huberman Come le lucciole [Survivance des
lucioles, 2009][12].
Era il primo febbraio 1975: due mesi e mezzo prima, il 14
novembre 1974, era uscito l’altro notissimo articolo, Il romanzo delle
stragi,
e nove mesi più tardi, la mattina del 2 novembre, all’idroscalo di Ostia, sarà
ritrovato il corpo massacrato di Pasolini: questa intanto, anche questa, è la
temporalità tra le parole e le cose attraverso cui guardare all’articolo delle
lucciole.
Proviamo a riscorrerlo sommariamente; il testo è suddiviso in
sei paragrafi: si comincia recuperando un articolo pubblicato da Fortini
(«L’Europeo», 26 dicembre 1974) di cui Pasolini rifiuta «il tendenziale
esordio», ovvero l’assunto di una distinzione ancora possibile tra «fascismo
fascista» e «fascismo democristiano» fatta a suo tempo dalla rivista «Il
Politecnico», secondo un modello di scansione in fasi diverse del fascismo che
rimontava al primo dopoguerra. Una decina di anni fa, scrive Pasolini, si è
consumato il passaggio a un fascismo totalmente nuovo e altro, che può essere
stigmatizzato da una «definizione di carattere poetico-letterario»: la
«scomparsa delle lucciole». Prima di quel fenomeno, si spiega nel secondo
paragrafo (Prima della scomparsa delle lucciole), «la continuità tra
fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta»; poi – siamo
al terzo passaggio (Durante la scomparsa delle lucciole) – proprio gli
anni del «Politecnico» hanno coinciso con fasi di transizione percepite
attraverso analisi «in sostanza formalistiche», inadatte a comprendere davvero
quanto la sovrapposizione delle due categorie del «benessere» e dello
«sviluppo» avrebbero realizzato il «”genocidio” di cui nel Manifesto parlava
Marx». Dopo la scomparsa delle lucciole – siamo al
quarto snodo – si è compiuta la «prima “unificazione” reale subita dal nostro
paese», attraverso la sostituzionetraumatica dei «valori» del
vecchio universo agricolo e paleocapitalistico con nuovi modelli di
«comportamento coatto» legati all’industrializzazione, al potere dei consumi, e
che consentono di parlare di una vera «mutazione». Malgrado tutto però, scrive
Pasolini, questo articolo non è stato scritto solo per polemizzare con Fortini,
ma «per una ragione molto diversa. Eccola. Tutti i miei lettori si saranno
certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi,
essi sono diventati delle maschere funebri» sollevando le quali «ci sarebbe il
nulla, il vuoto». «La spiegazione è semplice [si legge in attacco del quinto
punto]: oggi in Italia c’è un drammatico vuoto di potere» che è un vuoto «in
sé» perchè gli uomini democristiani, illudendosi che nel loro regime tutto
sarebbe stato sempre uguale, non hanno saputo percepire né capire il passaggio
dalla «fase delle lucciole» alla «fase della scomparsa delle lucciole», ovvero
che «il potere reale procede senza di loro». «Tuttavia [si attacca nel sesto e
ultimo paragrafo] il “vuoto” non può sussistere […] è probabile che in effetti
il “vuoto” di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un
riassestamento che non può non sconvolgere l’intera nazione. Ne è un indice ad
esempio l’attesa “morbosa” del colpo di stato», come se si trattasse di un
semplice problema di sostituzione piuttosto che di quel «potere reale» di cui
per ora «noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche». Quanto a me,
conclude Pasolini con il famosissimofulmen in clausola da intendersi
alla lettera ancor prima che in figura, «sia chiaro: io, ancorché
multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola».
Riprendere, almeno a grandi linee, i passaggi centrali di un
articolo spesso ridotto all’unica immagine delle lucciole, può essere un gesto
onesto di riconoscimento intellettuale. Con tutto il disordine e la disperata
vitalità, Pasolini infatti si rivela, alla prova degli anni, sempre più capace
di tenuta. L’autore degli Scritti corsari è veramente il
saggista italiano del secondo Novecento che più di ogni altro ci parla della
nostra attualità; e che dunque può servirci ancora molto, purché la sua opera
non sia schiacciata su banali forme di iconolatria. D’altronde, è un gesto
altrettanto onesto dichiarare che qui non si intende fare il punto, una volta
per tutte, sui retroscena politici di quell’articolo: per esempio sulla
relazione – opaca ma di certo attiva – che c’è tra l’ultima frase («darei
l’intera Montedison per una lucciola»), le notizie sul caso Mattei che Pasolini
sarebbe stato per svelare, la stesura di Petrolio e la sua morte.
Pasolini, lo dice bene Tricomi[13], è di per
sé «un’opera incompiuta», vocata a un destino, anche critico, «irrisolto». Né
si potrebbe insomma sciogliere qui la matassa delle tesi giudiziarie via via
riprese e discusse (per esempio, oltre che da molti film, ripetutamente e in
modo appassionato da Belpoliti, Benedetti, Buffoni, su «Nazione Indiana[14]»).
Ho recuperato questo testo perché credo che, all’interno del
discorso svolto sin qui sull’uso della notte e dell’oscurità come metafora non
solo prevalente ma addirittura dominante, ossessiva, nel racconto degli anni di
piombo, l’articolo delle lucciole fissi bene i modi di
funzionamento e di ripresa continua di quell’archetipo; e possa rappresentare
dunque un punto di partenza importante per la discussione – che qui si vuole
più che altro ampliare, non certo esaurire – sulle predominanti narrative della
stagione del terrorismo.
Molte volte il tema della scomparsa delle lucciole è stata usato
come mito puramente poetico-letterario (lo presentava così già l’autore, è vero,
ma parlando intanto anche di tutt’altro, come si è visto); o magari è stato
ripreso come argomento di protesta affine ad altri idoli di un anticapitalismo
romantico talora attivo in certa critica marxista. Ma il fatto è che l’elegia
non basta; non convince: avvicina troppo la postura corsara a un miagolio (il
codice del melodramma in Pasolini c’è, eccome, ma deborda di solito, si fa
parola nervosa, piuttosto che appagarsi di un’armonia plastica: questi mesi che
precedono la morte sono gli stessi dell’Abiura dalla Trilogia della vita, quelli in
cui non
si ha più voglia di giocare[15]). Né
sembrano risolvere l’energia di quell’immagine lampeggiante a tratti, nel buio,
le letture strettamente sociologiche, o magari orientate nella chiave di una
sorta di ecologismo ante litteram.
Belpoliti, in un libro importante come Settanta, parla della
scomparsa delle lucciole come di un’«evidente metafora sessuale»[16], che
proseguirebbe, tra l’altro una simbologia presente già in una lettera del 1941
di Pasolini all’amico Farolfi, dove si ricorda «una quantità immensa di
lucciole, che facevano boschetti di fuoco dentro boschetti di cespugli, e le
invidiavamo perché si amavano, perché si cercavano con amorosi voli e luci,
mentre noi eravamo aridi e tutti maschi in artificiale errabondaggio»[17]. è un
passaggio di vita ricordata che cattura tutta la disperata energia sensuale,
fisica come psichica, di un corpo nemmeno ventenne, e Belpoliti ha avuto
ragione a recuperarlo; questa evidenza può bastare però a commentare l’articolo
del 1974? Forse no. E anche il saggio di Didi-Huberman Come le lucciole è ricco di
suggestioni e di spunti, come sempre, ma una lettura tutta centrata sul valore
delle lucciole come simbolo di sopravvivenza (survivance) rischia di
squilibrare la questione di fondo: per esempio perché rischia di diventare
un’immagine tanto facile quanto fissa e identica a sé stessa, in cui si perde
il motivo e il gesto dinamico della luce intermittente nel buio («la luce è
frutto di un buio seme»[18]); si perde
quell’oscillazione-contraddizione continua che attinge a una precisa
temporalità storica e oltretutto è dispositivo centrale anche della poesia
pasoliniana – uso l’esempio più semplice: «Lo scandalo del contraddirmi,
dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle
buie viscere / […] Ma come io possiedo la storia, / essa mi possiede; ne sono
illuminato: // ma a che serve la luce?»[19].
«Darei l’intera Montedison per una lucciola»: dentro il
buio/vuoto terrificante della storia, le lucciole che appaiono e scompaiono,
esistono e non esistono, danno forma e la tolgono, sono metafora insuperabile
di ciò che vive intorno e che non vedi: corpuscoli luminosi – non certo
fiaccole votive – che producono vertigine dello sguardo nel medesimo istante in
cui sconvolgono la direzione del tempo. Pensiamoci: esiste un’immagine che
potrebbe spiegare meglio non solo il fenomeno del flashback, ma la capacità, di
una stessa parola, di fissare due esperienze solitamente separate come il lato
diurno della memoria e quello oscuro dei ricordi? Entrambi si confondono,
producono fasci intermittenti ora di luce, ora di tenebra, sdoppiandosi l’uno
nell’altro.
L’autore della scomparsa delle lucciole rivela allora,
anche attraverso questo articolo, una capacità di «immaginazione politica»
(secondo una definizione di Scalia) tanto alta quanto intraducibile (l’aggettivo è
aggiunto da Piergiorgio Bellocchio)[20]: dove
intraducibile, direi, non vale come sinonimo di “ineffabile” ma come
espressione di una riluttanza alla concettualizzazione pacificata, alla
definizione di una geometria fissa di rapporto tra le parole e le cose. Le
lucciole fissano quella che si potrebbe provare a chiamare una figurazione
concettuale: dove visivo e semantico stanno assieme in maniera
potentissima. E intercettano dunque, con largo anticipo su molti altri testi,
quello che nel tempo diventerà un motivo dominante della mitografia degli anni
Settanta. Fino al punto di poter parlare di una modalità narrativa
ossessivamente filtrata dalla compresenza di luce/buio, proiettata su uno
scenario fantasmatico (penso anche aFantasmi italiani, del 1974, di
Arbasino[21]) e che, almeno sul
piano del racconto, si è impadronita dei fatti, della realtà, dando loro forma.
Precisamente quella forma da cui, in maniera anche apparentemente oscura,
sentirà la necessità di ripartire pure Sciascia, proprio ne L’affaire Moro, che comincia così:
«Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una
lucciola […]. Ne ebbi una gioia intensa. E come doppia. E come sdoppiata. La
gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia, i ricordi, questo stesso luogo ora
silenzioso pieno di voci e di giuochi – e di un tempo da trovare, da inventare.
Con Pasolini»[22].
[1] A. O’Leary, Tragedia all’italiana.
Cinema e terrorismo tra Moro e memoria, traduz. di L. A. Salaris, Angelica
Editore, 2007, p. 96.
[2] «Good Morning – Midnight – / I’m coming Home – /
Day – got tired of Me – / How could I – of Him? // Sunshine was a sweet place –
/ I liked to stay – / But Morn – didn’t want me – now – / So – Goodnight
– Day! // I can look – can’t I – / When the East is Red? / The Hills – have a
way – then – / That puts the Heart – abroad – // You – are not so fair –
Midnight – / I chose – Day – / But – please take a little Girl – / He turned
away!».
[3] S. Zavoli, La notte della
Repubblica, edizione allegata a «l’Unità» del 17 gennaio 1994, p. 4
[4] I. Pezzini, Televisione e
terrorismo in Italia. Un caso di studio: «La notte della Repubblica» di Sergio
Zavoli,
in Immagini
quotidiane. Sociosemiotica visuale, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 118-120
e passim.
[5] Cfr. A.
O’Leary, Tragedia all’italiana, cit., p. 50.
[6] Ciò non toglie
tuttavia che possano essere utili strumenti i dati e le considerazioni offerti
da Luigi Reitani nella voce “Notte” da lui curata per il Dizionario dei temi
letterari, a cura di R. Ceserani, M. Domenichelli, P. Fasano, UTET, Torino
2007, vol. II, pp. 1671-1674.
[7] R.
Donnarumma, Storia, immaginario, letteratura: il terrorismo nella narrativa
italiana (1969-2010), in AA. VV., Per Romano Luperini, a cura di Pietro
Cataldi, Palumbo, Palermo 2010, pp. pp. 438-465.
[8] E. Wiesel, La Nuit, Les Éditions de
Minuit, Paris 2007, pp. 78-79; La notte, trad. di D.
Vogelmann, La Giuntina, Firenze (1992) 2000.
[9] B. Brecht, An die Nachgeborenen [A coloro che verranno], 1939, traduz. di
R. Leiser e F. Fortini, in B. Brecht, Poesie e canzoni, Torino, Einaudi,
1959.
[10] Preparato in
occasione del conferimento del Premio Lessing, il testo fu pubblicato per la
prima volta nel 1960; è molto nota la traduzione inglese (curata da Clara e
Richard Wiston con la consulenza della Arendt): On Humanity in Dark
Times. Thoughts about Lessing, che apre la raccolta Men in Dark Times (Harcourt,
Brace & World, New York 1968). In edizione italiana cfr. H. Arendt, L’umanità in tempi bui, a cura di L.
Boella, Raffaello Cortina, 2006.
[11] M. Rigoni
Stern, Il sergente nella neve, [1953], Einaudi, Torino 2008, p. 36. Sulla
Grande Guerra, invece, riguardo alla poesia, molti utili campioni di espressione
in notturna potrebbero essere prelevati dall’antologia curata da A.
Cortellessa, Le notti chiare erano tutte un’alba, Bruno Mondadori,
Milano 1998.
[12] Bollati
Boringhieri, Torino 2010, traduzione di Chiara Tartarini; cfr. pure
l’intervista a cura di I. Mattazzi, Luce-buio Didi-Huberman. Una allegoria
politica illuminata dalle lucciole, in «il Manifesto», 20 febbraio 2010 (di
cui trovo particolarmente importante il passaggio in cui l’autore osserva che
«Non è l’immagine a interessarmi in quanto tale, ma ciò che questa immagine
veicola sul dolore degli uomini, sulla sofferenza dell’umano».
[13] A. Tricomi, Sull’opera mancata di
Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Carocci, Roma
2005.
[15] «[…] se io dessi
corpo a ciò che qui è solo potenziale, e cioè inventassi la scrittura
necessaria a fare di questa storia un oggetto, una macchina narrativa che
funziona da sola nell’immaginazione del lettore, dovrei per forza accettare
quella convenzionalità che è in fondo giuoco. Non ho più voglia di giocare»:
P.P. Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino 1992, pp. 544-545.
[16] M.
Belpoliti, Settanta, nuova edizione, Einaudi, Torino 2010, p. 94.
[17] P. P.
Pasolini, Lettere. 1940-1954, a cura di N. Naldini,
Einaudi, Torino 1986, p. 37. Tutta la scena della comitiva ventenne è descritta
attraverso il contrasto buio/luce.
[18] L’umile Italia, 1954, in P. P.
Pasolini, Bestemmia, Tutte le poesie, a cura di G.
Chiarcossi e W. Siti, con prefazione di G. Giudici, Milano, Garzanti, 1995
[1993], cit., vol. I, p. 209.
[19] Le ceneri di Gramsci, in P. P.
Pasolini, Bestemmia, cit., vol. I, p. 227. Ma si veda pure: «Mendicare
un po’ di luce per questo / mondo rinato in un oscuro mattino?», ivi, p. 203 (Comizio, 1954).
[20] P. P.
Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. XXXIV.
[21] A.
Arbasino, Fantasmi italiani, Cooperativa Scrittori, Roma 1977. «I
fantasmi del titolo rinviano naturalmente sia ai nuovissimi fantasmi della
psicanalisi fantasmatica (“scenari immaginari in cui è presente il soggetto –
l’Italia – e che raffigurano, in modo più o meno deformato dai processi
difensivi, l’appagamento di un desiderio e, in ultima analisi, di un desiderio
inconscio”, Laplanche & Pontalis), sia ai vecchi fantasmi della tradizione
popolare che percorrono il nostro caro Paese con lenzuolo in testa e due buchi
per gli occhi» (p. 8).
[22] L.
Sciascia, Opere 1971-1983, a cura di Claude
Ambroise, Bompiani, Milano 1989, pp. 467-468.
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