martedì 3 novembre 2015

Rassegna stampa da Repubblica, fine ottobre 2015

2015-10-30
“Todo modo”,    l’ultima recensione di Pasolini
UMBERTO CANTONE
Qualche mese prima di finire massacrato all’Idroscalo di Ostia, giusto 40 anni fa, Pier Paolo Pasolini scrisse quella che era destinata a diventare l’ultima delle sue recensioni letterarie, e la dedicò a Todo modo , il libro allora più recente dell’amico “ fraterno e lontano” Leonardo Sciascia. In quello scritto, apparso sulle colonne del settimanale “Tempo” il 24 gennaio 1975 e poi raccolto con altri nell’ormai introvabile volume Descrizioni di descrizioni edito da Einaudi, Pasolini annunciò di voler interrompere momentaneamente la rubrica insieme al proprio impegno di critico militante (la “faticosa” analisi di tre libri a settimana per tre anni di fila), e questo a causa del film «terribilmente avventuroso e sgradevole» che si accingeva a girare, una versione delle 120 giornate di Sodoma ambientata nell’Italia del 1944, il suo testamentario Salò/Sade .


Dal tono appassionato della recensione pare evidente che l’intellettuale cineasta avesse individuato nel “giallo metafisico” dello scrittore di Racalmuto più di un motivo d’ispirazione per il suo estremo esperimento cinematografico: entrambe le opere esibiscono una struttura dantesca nell’evocare una “mostruosa” metafora apocalittica sul potere (del vecchio fascismo come del nuovo identificato nella Dc e nei suoi notabili) che si fa espressione criminale di anarchia assoluta in claustrofobici universi «che elaborano fino alla follia i dati della realtà». Ed è proprio allo Sciascia moralista “purissimo” e instancabile indagatore di realtà che Pasolini si rivolge, nella consuetudine di un lungo dialogo mai interrotto, dalla metà degli anni Cinquanta in poi, anche se talvolta incrinato da qualche reciproco malinteso in cui si fronteggiarono differenti temperature intellettuali e opposti metodi di giudizio.
«Sciascia non ha mai smesso di essere attuale. In Todo modo, il suo romanzo migliore, egli non si disperde in rancori o perdoni: e formula la sua condanna”. In quel libro «magistrale », Pasolini seppe decifrare un comune codice ideale che lo legava al suo sodale siciliano, la messa in forma compiuta di quel processo al Palazzo che era diventata la sua ossessione.
Con analogo fervore, Sciascia ricambiò quel generoso tentativo di rispecchiamento: dopo il maledetto 2 novembre del brutale e irrisolto assassinio, si dichiarò la sola persona con cui Pasolini potesse parlare e definì la sua morte violenta, così emblematica da risultare ad altri persino letteraria, «una tragica testimonianza di verità ».


La ferita rimasta aperta dell’espulsione dal Pci per “indegnità morale”
Filippo Ceccarelli

Il saggio della storica Anna Tonelli ricostruisce la cacciata dello scrittore dal partito in Friuli e la sua fuga a Roma Ma lui continuò a dichiarare: “Io voto comunista”.
«Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella del 1946 e del 1947». Giusto quarant’anni orsono, al cinema Jolly di Roma, Pier Paolo Pasolini salì sul palco di una manifestazione pre-elettorale e lì con quella voce da eterno adolescente lesse la sua dichiarazione di voto al Pci: «Voto comunista perché al momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare altro».
Questo “altro” su cui almeno in quel momento preferiva stendere un velo di oblio, avvenne forse circa due anni dopo quelle memorabili primavere, nell’estate del 1949, ma oggi lo racconta con degno scrupolo documentario la storica Anna Tonelli in questo Per indegnità morale , sottotitolo Il caso Pasolini nell’Italia del buon costume (Laterza), in uscita il 5 novembre. Non ancora trentenne, egli fu infatti espulso dal Pci, anche piuttosto frettolosamente: senza potersi discolpare dinanzi agli organi dirigenti del Friuli; e senza che il processo conclusosi con la radiazione per “indegnità morale” lasciasse troppe tracce nei pur ricchi archivi delle federazioni (Udine e Pordenone) cui Pasolini faceva capo; circostanza tale da giustificare l’ipotesi di una possibile “ripulitura”, magari effettuata quando Pasolini era divenuto uno dei più importanti personaggi della cultura italiana.
Al momento dei fatti — avvenuti in un luogo dal poetico nome di Ramuscello — Pasolini insegnava alle scuole medie, ma rivestiva gli incarichi di segretario di sezione, ispettore regionale di un’organizzazione giovanile, e soprattutto era uno dei più promettenti intellettuali del partito. Che forse ignorava, o forse no, come nel vissuto di quel giovane professore l’ardente militanza già conviveva con un’impetuosa omosessualità. Di quell’esito resta solo un trafiletto dell’ Unità . Riletto oggi, spicca per sommaria ristrettezza di vedute, ma anche per l’incapacità di comprendere il senso politico della vicenda e cioè che cosa si nascondeva dietro quello “scandolo” — in tal modo definito nei resoconti dei carabinieri — che a scoppio del tutto ritardato si volle far brillare intorno ai fatti di Ramuscello.
Qui in campagna, durante una sagra di paese (vino, rumba, fisarmonica), il 27enne Pasolini si era portato quattro ragazzetti ( due di 15 e due di 16 anni), tutti un po’ brilli: per fare sesso, come si dice oggi. Erano allora i partiti, entità che si ritenevano non solo in grado, ma pure in diritto di forgiare gli individui, la loro mentalità, il loro stile di vita e i loro comportamenti. In un’Italia nella quale il privato — scrive bene Tonelli — «faceva corpo con la politica».
Sennonché, nell’asprezza della lotta, era proprio l’accusa morale, l’arma privata e personale, quella a suo modo ritenuta risolutiva tanto dai comunisti quanto dalla Dc. Per screditare i reciproci partiti, additandoli come fonti di abiezione, portatori di dissolutezza, mali assoluti.
Per farla breve, diversi ma non troppi giorni dopo la notte brava i ragazzi con cui Pasolini si era divertito litigarono fra loro; qualcosa si venne a sapere in paese; e i dc colsero il destro per vendicarsi del trattamento che i comunisti avevano riservato a uno di loro, omosessuale. E così, pur mancando qualsiasi denuncia, attraverso la classica combinazione di forze di polizia e organi di informazione, fin da allora alla base di qualsiasi manovra di discredito, Pasolini fu fatto per la prima volta carne da macello giudiziario e mediatico; e il partito prese le distanze mollandolo nella trappola.
Alla fine verrà anche assolto, ma troppo tardi: sopraffatto dall’ingiustizia e dalla vergogna, era dovuto scappare con la famiglia a Roma. Comunque non prima di aver scritto ai dirigenti: «Io resto e resterò comunista».
Adesione lacerante, anch’essa a suo modo figlia di quel tempo di terribili passioni. Nel 1960 il Pci lo “recupera” facendolo collaborare in piena libertà a Vie nuove — e anche qui Tonelli ricostruisce, come pure ai tempi de Il Vangelo secondo Matteo , un rapporto nel quale, rispetto allo spessore poetico e perfino profetico del personaggio, quel grande partito appare ora più piccolo, e i suoi orizzonti più poveri, per certi aspetti forse già segnati. Quattro mesi prima di morire, così continua la dichiarazione di voto al Jolly: «La natura ci ha dato la facoltà di ricordare (o sapere) e di dimenticare (o non sapere) ciò che vogliamo. Un’altra volta vi dirò — dirò a voi giovani, soprattutto a quelli di 18 anni — che cosa al momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare o sapere». Non ce ne fu il tempo, ma forse riguardava proprio quell’indegnità morale a cui, con la mitezza di un animo unico, aveva cercato di far fronte scrivendo: «Mi meraviglio della vostra disumanità».


2015-10-28
Il poeta. Pier Paolo Pasolini il vangelo eretico di un artista totale
Valerio Magrelli

Malgrado la sua venerabile età, quello della cultura italiana è un cielo giovane, in cui molte stelle fisse sono apparse da poco. Nel teatro, nella poesia o nel romanzo, ma anche nella critica e ovviamente nel cinema, non pochi autori sono assurti alla gloria appena pochi anni fa. Quello di Pasolini tuttavia, è un caso a parte: in mezzo a tanti astri, la sua figura spicca come una costellazione vera e propria. Nessuno ha ottenuto risultati così notevoli in discipline altrettanto disparate. Nessuno ha tentato, è ed riu
scito, a imporsi come poeta e romanziere, critico e drammaturgo, regista,opinionista, maître à penser.
Anche la sua morte, atroce ed emblematica, lo ha proiettato sulla volta celeste del mito. Accadde quarant’anni fa, il 2 novembre del 1975: fu trovato ucciso all’Idroscalo di Ostia, il corpo martoriato, e tanti misteri non chiariti sugli autori materiali e sui mandanti. Ma con quella tragedia è andato incontro anche a ciò che i greci chiamavano “apoteosi”, ovvero a una sorta di deificazione: l’assunzione al Cielo di un mortale. Come Ercole o Pegaso, forse, nel firmamento culturale d’oggi, Pasolini è l’unica figura degna di tale consacrazione.
Ciò che colpisce di più è la sua portentosa duttilità. Solo un uomo dal genio rinascimentale, per certi aspetti addirittura leonardesco, poteva passare dalla solitudine del filologo e dello scrittore, a quell’autentico suk in cui consiste una ripresa cinematografica, lasciando il bianco silenzio della pagina per il forsennato caos di una troupe. Questo per dare un’idea, sia pure sommaria, delle inverosimili capacità metamorfiche del nostro autore. D’altronde la sua formazione riflette bene tale bulimia. Già in terza liceo Pasolini viene promosso con una media tanto alta da fargli saltare un anno. Iscrittosi appena diciassettenne alla facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, eccolo avventarsi su materie disparate come la filologia romanza o la storia dell’arte, il cui insegnamento era affidato a un maestro quale Roberto Longhi. Superfluo ricordare, a questo punto, i suoi primi dipinti, peraltro sostenuti da un altro grande storico dell’arte, Francesco Arcangeli. Certo, una simile fame di sapere, una simile urgenza conoscitiva acquistano un significato drammatico e premonitore alla luce della sua morte precoce, quasi che l’enfant prodige avesse avuto bisogno di bruciare le tappe per realizzare in tempo tutti i suoi progetti. Si spiegano così, per certi versi, la foga con cui lo studente ( che nel frattempo viene promosso capitano di calcio della facoltà di Lettere) divora la poesia di Montale e di Ungaretti, nonché le traduzioni di Quasimodo, mentre si imbatte in Freud e Marx, che rimarranno fra i punti fermi del suo pensiero: “eretico”, “corsaro”, in certi casi indubbiamente contraddittorio. Dopo Bologna, poi, è la volta di Casarsa, in provincia di Pordenone, città natale dell’adorata madre.
Qui avranno luogo due esperienze fondamentali: da un lato la scoperta della poesia dialettale, attraverso l’adozione della lingua friulana, dall’altro la realizzazione di un’omosessualità edenica, troppo presto trasformata in cacciata dal paradiso terrestre sotto forma di denuncia per corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico, espulsione dal partito comunista e revoca dell’incarico di docente. Senza più mezzi di sostentamento, e con la madre costretta a fare la donna delle pulizie, Pasolini si trasferisce a Roma, dove ben presto troverà, fra tante amicizie, quelle di Alberto Moravia e Bernardo Bertolucci. Poco dopo, la folgorante affermazione nel mondo letterario, giornalistico e cinematografico.
L’elenco delle sue opere è impressionante. In poesia si va dalle prove dialettali di La meglio gioventù (poi riscritto come La nuova gioventù) alle “romane” Ceneri di Gramsci, passando per La religione del mio tempo e Transumanar e organizzar . Nel romanzo, Ragazzi di vita e Una vita violenta , oltre al magmatico e incompiuto Petrolio . E mentre nel teatro spiccano testi quali
Affabulazione o Bestia da stile , tra i suoi film campeggiano capolavori come Accattone ,
Il Vangelo secondo Matteo ,
la trilogia della vita ( Il Decameron , I racconti di Canterbury , Il fiore delle Mille e una notte ) e il brutale, visionario Salò o le 120 giornate di Sodoma .
Grandi film, per un uomo la cui versatilità emerge bene dal rapporto con Federico Fellini. Il regista, che aveva fondato con Rizzoli una casa cinematografica, nel 1961 fu in trattative per produrre
Accattone . Viste le prove iniziali, però, si tirò indietro.
Oltre alle pellicole di finzione, altrettanto ricca fu inoltre la sua produzione di documentari, che spaziano dall’Emilia di Comizi d’amore all’Uganda di Appunti per una Orestiade africana, nel coraggioso e ingenuo tentativo di rinvenire il mito greco alle radici di culture preindustriali.
Occorre tuttavia illustrare ancora un passaggio di estremo interesse. A un certo punto, infatti, lo stesso uomo che, nella sua disperata nostalgia del passato agreste in cui viveva la provincia italiana, predicava il ritorno alle radici e il rifiuto della società capitalista, si trasformò in un viaggiatore indefesso, in un etnografo innamorato delle origini, pronto a cogliere ora “l’odore dell’India”, ora l’intatto fascino dell’antica architettura yemenita.
Proviamo dunque a tirare le somme. Abbiamo parlato di “costellazione Pasolini”, ad ogni modo, qualunque sia la similitudine che vogliamo adottare, ovunque vadano le nostre preferenze, una cosa è evidente: con l’autore di un film e opere teatrali, versi e romanzi, editoriali sull’omologazione e recensioni come quella su Mandel’stam quale caposcuola delle poesia russa, siamo di fronte a un talento così multiforme da meritare l’impiego del plurale. Se è vero tutto quanto detto finora, allora non dovremmo più dire: “Pasolini fu”, ma più semplicemente: “Pasolini furono”.

2015-10-28,
Il corsaro. Un terzo occhio sul teorema del potere
Giovanni De Luna

L’Italia di oggi nacque con il boom economico, la grande trasformazione che ne riplasmò sentimenti, mode, abitudini, comportamenti politici, scelte di vita. Pier Paolo Pasolini ne fu protagonista e testimone e il suo lavoro si propone allo storico come una fonte indispensabile per avvicinarsi al senso profondo di quegli anni. Ma Pasolini ha anche egli stesso uno sguardo da storico, interessato al mutamento,alle brusche impennate della grande storia che rompono la crosta dell’immobilismo, spezzano equilibri plurisecolari. Così, quando riflette sulla società italiana, lo fa con consapevolezza di chi si misura con una questione — quella della continuità/ rottura tra il fascismo e l’Italia repubblicana — che è tipicamente storiografica. Schierandosi decisamente per la “continuità”, il suo riferimento è a una Democrazia Cristiana che «sotto lo schermo di una democrazia formale e di un antifascismo verbale, ha perpetuato la stessa politica del fascismo», dando vita a un «regime poliziesco parlamentare ». Il blocco sociale su cui si fondava il consenso democristiano era lo stesso del fascismo mussoliniano: la piccola borghesia e i contadini uniti al grande capitale. Identico era anche il cemento ideologico fondato sul cattolicesimo e su valori quali la moralità, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, la patria, la famiglia.
La tesi della “continuità” era in gran parte condivisa dagli storici di allora. A marcarne l’originalità fu piuttosto il film su Salò o le 120 giornate di Sodoma , del 1975. In quel caso davvero si spinse in territori che la stessa storiografia ufficiale aveva fino ad allora complessivamente ignorato, restituendo al fascismo la sua essenza biopolitica, attribuendogli un Potere in cui si incarnava il Male assoluto. In quella Salò, il Potere consumava la sua ultima, parossistica orgia e lasciava affiorare, senza più mediazioni ed orpelli istituzionali, la volontà di impadronirsi — attraverso il sesso — dei corpi dei propri sudditi; una volontà di dominio che era la diretta conseguenza di quella “politicizzazione della vita” attraverso la quale, come avrebbe sottolineato Agamben, nelle esperienze del totalitarismo novecentesco il corpo dell’individuo diventava la posta in gioco delle strategie politiche, la politica si trasformava in biopolitica: la nuda vita, l’esistenza biologica degli individui, fino ad allora confinata in una terra di nessuno, veniva inserita nel circuito della statualità, con la vita e la morte che non erano più concetti scientifici ma politici, occasione per l’esercizio di un potere che si saziava umiliando e profanando i corpi delle vittime.
Ma Pasolini “storico” fu originale anche per altri aspetti. Fu tra i pochi, infatti, ad accorgersi di una “rottura” ben più profonda, avvenuta nell’inconsapevolezza di molti. «La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa — scriveva, nel 1974 — Non c’è più dunque differenza apprezzabile… tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente, e quel che più impressiona, fisicamente, interscambiabili... I giovani neofascisti che con le loro bombe hanno insanguinato l’Italia, non sono più fascisti... Se per un caso impossibile essi ripristinassero a suon di bombe il fascismo, non accetterebbero mai di ritornare ad una Italia scomoda e rustica, l’Italia senza televisione e senza benessere, l’Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio, l’Italia con le donne chiuse in casa e semivelate. Essi sono pervasi come tutti gli altri dagli effetti del nuovo potere che li rende simili tra loro e profondamente diversi rispetto ai loro predecessori». Con le piazze arroventate da uno scontro ideologico ancora tutto novecentesco, queste considerazioni suscitarono un inevitabile scalpore. Pasolini argomentava il suo pessimismo segnalando due “rivoluzioni”, quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione, avvenute proprio negli anni del boom. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale. Il nuovo Potere, nonostante le sue parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo. «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili ad uniformasi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole... Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata ». Certo, erano giudizi eccessivi, disperati quasi. Pure oggi, alla luce di tutto quello che è successo dagli anni Ottanta, il pessimismo pasoliniano assume i tratti di una lucida profezia.

2015-10-28,
Asor Rosa.Quando mi disse: “Sei l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”
Intervista di Simonetta Fiori

«Vorrei dirlo proprio ai suoi più accaniti ammiratori: per carità non fatene un santino. Un destino che Pier Paolo non si merita». Cinquant’anni fa lo stroncò ferocemente in Scrittori e popolo come un piccolo-borghese piagnucoloso, romanziere fallito e refrattario all’avanguardia. Oggi rivede (ma solo in parte) le sue critiche e del polemista corsaro rimpiange la capacità profetica, seppure mossa da premesse reazionarie. Alberto Asor Rosa ripercorre il suo inquieto rapporto con Pasolini, mettendo in guardia dalla nuvola di incenso che rischia di neutralizzarne la carica dialettica.
Dallo “scandalo del contraddirsi” all’“icona pop” di oggi: il percorso di Pasolini risulta quasi paradossale. «Basta fare il raffronto con l’anniversario di Calvino, di cui ricorre il trentennale. Il clamore per Pasolini è enormemente più forte».
Come lo spiega?
«Calvino ha battuto una strada coerente con la sua natura di scrittore e intellettuale: il discorso razionale non intriso di passionalità e polemica. Pasolini evidentemente ha battuto la strada opposta. E la sua passionalità finisce per incontrarsi di più con gli strumenti della civiltà massmediatica».
Sta dunque dicendo che l’intellettuale che ci aveva messo in guardia dalla dittatura dei consumi rischia di essere il più consonante a questa civiltà?
«Entra di più nei suoi circuiti di comunicazione. La mia non vuole essere una critica postuma. La forza polemica di Pasolini consiste in una peculiarità: nell’atto di formulare giudizi e valori esibisce totalmente se stesso. Calvino fa l’operazione opposta: svolge la sua polemica politico-civile rifiutando di esibirsi. L’esibizione di se stessi è uno dei tratti fondamentali della nostra era massmediatica».
La corporeità di Pasolini è centrale in questo discorso.
«Mi viene in mente quella serie di fotografie che si fece scattare nel suo ritiro del Cimino mentre scrive nudo. Se lo immagina Calvino in mutande? Ma non è un giudizio di valore, è pura descrizione ».
Perché si preoccupa tanto di non apparire critico? Cinquant’anni fa lo fece a pezzetti.
«No, io rifiuto questa vulgata. La mise in giro il medesimo Pier Paolo, ma non era così».
Lui ci rimase molto male.
«Ci incontrammo in un’assemblea alla Sapienza, alcuni anni dopo l’uscita del libro. Io ero seduto in prima fila e lui, passandomi davanti, mi fulminò con lo sguardo a mirino: “Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”».
Perché l’aveva stroncato?
«Io però vorrei correggere questo stereotipo. Nel saggio apparso su Scrittori e Popolo ci sono due Pasolini. Uno è quello che punta a scavarsi un posto di rilievo nella cultura contemporanea ammiccando alla linea progressista ufficiale: il verbo comunista. E di questa spinta sono il frutto i romanzi romani, che io trovo intollerabili proprio perché mescolano le sue pulsioni naturali con il quadro ideologico populista del canone ufficiale».
Ma i critici comunisti lo accolsero con sospetto.
«E lui reagì con stupore: ma come è possibile? Ho scritto quei romanzi proprio tenendo conto della vostra linea… »
Questo Pasolini non le piaceva.
«E continua a non piacermi. Ma in quel mio saggio c’era anche un altro Pasolini, l’autore delle poesie e dei romanzi friulani, espressione autentica del suo rapporto elegiaco con il mondo popolare. E c’era anche il Pasolini delle Ceneri di Gramsci , dove lui riflette criticamente e autocriticamente sul suo stare al mondo e sul suo rapporto con l’Italia contemporanea. Il mio giudizio era già allora articolato e lo sarebbe diventato ancor di più nei passati decenni».
Sì, certo, non fu solo stroncatura.Ma nella parte critica non mancano passaggi molto aspri. Soprattutto quando lei lo rimprovera atteggiarsi a «povero martire che invoca grazia e pietà», che «pretende tregua e dunque confessa inferiorità», che in sostanza «chiede di essere amato anche dal nemico».
«Ma su questo non ho dubbi. Anche qui il parallelo con Calvino è utile: Calvino non ha alcun bisogno di essere amato perché la sua intellettualità e la sua natura sono autonome. Pasolini aveva un urgente bisogno di essere riconosciuto. Prima accennavo alla richiesta di comprensione e di aiuto che avanzò alla cultura progressista: comprensione e aiuto che i critici comunisti si guardarono bene dal concedergli. In sostanza il bisogno di riconoscimento gli venne negato non solo dal ceto dominante conservatore e democristiano, ma anche da quella cultura comunista che sarebbe dovuta essere la interlocutrice privilegiata. Questo accentua il suo conflitto con il mondo fino agli esiti tragici finali».
Gli negherebbe ancora il ruolo di sperimentatore? In “Scrittori e Popolo” lo ritrae come un letterato conservatore nemico dell’avanguardia.
«Negare oggi il ruolo di sperimentatore a Pasolini sarebbe francamente assurdo, però letterariamente la sua è una sperimentazione che si muove molto nei solchi della tradizione. E io all’epoca mi concentravo sulla sua opera letteraria».
E quell’accusa di piccolo-borghese? A sinistra suonava come un insulto.
«Sì, un’accusa che ci siamo rinfacciati a vicenda. È una terminologia di quegli anni e oggi non mi verrebbe in mente ritirarla fuori. Decisamente datata».
I vostri rapporti si interruppero?
«No, tra noi non c’erano mai stati rapporti personali. Quando uscì Scrittori e Popolo io avevo 32 anni ed ero uno sconosciuto, sideralmente lontano dalla società culturale romana che aveva una struttura monocratica e chiusa. Il gruppo Moravia-Pasolini-Betti-Siciliano viveva in una sua realtà impermeabile. E io ai salotti romani bene preferivo il volantinaggio in fabbrica».
Oggi rimpiange il Pasolini profetico.
«Sì, partendo da premesse totalmente sbagliate riuscì a cogliere meglio di chiunque altro le aberrazioni del progresso. Una forza di denuncia e di previsione impressionante».
Però allora a sinistra era considerato reazionario e antiprogressista.
«Lo era, indubitabilmente. Era assetato di passato. Rimpiangeva un mondo incontaminato senza cogliere gli elementi di progresso che pure tra gli anni Cinquanta e Sessanta segnarono la crescita del nostro Paese. Ma il prevalere di questo elemento primigenio ha finito per rendere la sua denuncia più violenta e profetica».
Crede che la sua morte fu dovuta a un complotto?
«No, non ci credo. La sua morte fu coerente allo stile di vita. Non voglio dire che cercasse di essere ammazzato, ma se uno fa la vita che faceva Pier Paolo non può non sapere che rischia di essere ammazzato. E tutto quello che scrive e fa negli ultimi due o tre anni muove in quella direzione».
Cosa le dà fastidio delle celebrazioni di oggi?
«Invece di capirlo e interpretarlo si tende a farne un santino spegnendone la carica critica pungente. Il profeta dell’omologazione rischia di essere consumato come un prodotto di massa ».
Walter Siti sostiene che intorno a Pasolini è tutto un pigolio, ma in realtà non ci sono eredi: nessuno si è confrontato davvero con la sua ricerca.

«Sì, ha ragione. L’unico è Saviano, che lo cita in Gomorra come oggetto di pellegrinaggio alla tomba di Casarsa e ne tiene un po’ conto nella descrizione della società camorristica. Per il resto non vedo eredi pasoliniani come non vedo né fortiniani né calviniani. Non ci sono eredi e basta».

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.