2015-10-30
“Todo modo”, l’ultima
recensione di Pasolini
UMBERTO CANTONE
Qualche mese prima di finire massacrato all’Idroscalo di Ostia, giusto 40
anni fa, Pier Paolo Pasolini scrisse quella che era destinata a diventare
l’ultima delle sue recensioni letterarie, e la dedicò a Todo modo , il libro allora più recente dell’amico “ fraterno e
lontano” Leonardo Sciascia. In quello scritto, apparso sulle colonne del
settimanale “Tempo” il 24 gennaio 1975 e poi raccolto con altri nell’ormai
introvabile volume Descrizioni di
descrizioni edito da Einaudi, Pasolini annunciò di voler interrompere
momentaneamente la rubrica insieme al proprio impegno di critico militante (la
“faticosa” analisi di tre libri a settimana per tre anni di fila), e questo a
causa del film «terribilmente avventuroso e sgradevole» che si accingeva a
girare, una versione delle 120 giornate di Sodoma ambientata nell’Italia del
1944, il suo testamentario Salò/Sade .
Dal tono appassionato della recensione pare evidente che l’intellettuale
cineasta avesse individuato nel “giallo metafisico” dello scrittore di
Racalmuto più di un motivo d’ispirazione per il suo estremo esperimento
cinematografico: entrambe le opere esibiscono una struttura dantesca
nell’evocare una “mostruosa” metafora apocalittica sul potere (del vecchio
fascismo come del nuovo identificato nella Dc e nei suoi notabili) che si fa
espressione criminale di anarchia assoluta in claustrofobici universi «che
elaborano fino alla follia i dati della realtà». Ed è proprio allo Sciascia
moralista “purissimo” e instancabile indagatore di realtà che Pasolini si
rivolge, nella consuetudine di un lungo dialogo mai interrotto, dalla metà
degli anni Cinquanta in poi, anche se talvolta incrinato da qualche reciproco
malinteso in cui si fronteggiarono differenti temperature intellettuali e
opposti metodi di giudizio.
«Sciascia non ha mai smesso di essere attuale. In Todo modo, il suo romanzo migliore, egli non si disperde in rancori
o perdoni: e formula la sua condanna”. In quel libro «magistrale », Pasolini
seppe decifrare un comune codice ideale che lo legava al suo sodale siciliano,
la messa in forma compiuta di quel processo al Palazzo che era diventata la sua
ossessione.
Con analogo fervore, Sciascia ricambiò quel generoso tentativo di
rispecchiamento: dopo il maledetto 2 novembre del brutale e irrisolto
assassinio, si dichiarò la sola persona con cui Pasolini potesse parlare e
definì la sua morte violenta, così emblematica da risultare ad altri persino
letteraria, «una tragica testimonianza di verità ».
La ferita rimasta aperta
dell’espulsione dal Pci per “indegnità morale”
Filippo Ceccarelli
Il saggio della storica Anna Tonelli ricostruisce la cacciata dello
scrittore dal partito in Friuli e la sua fuga a Roma Ma lui continuò a
dichiarare: “Io voto comunista”.
«Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella
del 1946 e del 1947». Giusto quarant’anni orsono, al cinema Jolly di Roma, Pier
Paolo Pasolini salì sul palco di una manifestazione pre-elettorale e lì con
quella voce da eterno adolescente lesse la sua dichiarazione di voto al Pci:
«Voto comunista perché al momento del voto, come in quello della lotta, non
voglio ricordare altro».
Questo “altro” su cui almeno in quel momento preferiva stendere un velo di
oblio, avvenne forse circa due anni dopo quelle memorabili primavere,
nell’estate del 1949, ma oggi lo racconta con degno scrupolo documentario la
storica Anna Tonelli in questo Per
indegnità morale , sottotitolo Il
caso Pasolini nell’Italia del buon costume (Laterza), in uscita il 5
novembre. Non ancora trentenne, egli fu infatti espulso dal Pci, anche
piuttosto frettolosamente: senza potersi discolpare dinanzi agli organi
dirigenti del Friuli; e senza che il processo conclusosi con la radiazione per
“indegnità morale” lasciasse troppe tracce nei pur ricchi archivi delle
federazioni (Udine e Pordenone) cui Pasolini faceva capo; circostanza tale da
giustificare l’ipotesi di una possibile “ripulitura”, magari effettuata quando
Pasolini era divenuto uno dei più importanti personaggi della cultura italiana.
Al momento dei fatti — avvenuti in un luogo dal poetico nome di Ramuscello
— Pasolini insegnava alle scuole medie, ma rivestiva gli incarichi di
segretario di sezione, ispettore regionale di un’organizzazione giovanile, e
soprattutto era uno dei più promettenti intellettuali del partito. Che forse
ignorava, o forse no, come nel vissuto di quel giovane professore l’ardente militanza
già conviveva con un’impetuosa omosessualità. Di quell’esito resta solo un
trafiletto dell’ Unità . Riletto oggi, spicca per sommaria ristrettezza di
vedute, ma anche per l’incapacità di comprendere il senso politico della
vicenda e cioè che cosa si nascondeva dietro quello “scandolo” — in tal modo
definito nei resoconti dei carabinieri — che a scoppio del tutto ritardato si
volle far brillare intorno ai fatti di Ramuscello.
Qui in campagna, durante una sagra di paese (vino, rumba, fisarmonica), il
27enne Pasolini si era portato quattro ragazzetti ( due di 15 e due di 16
anni), tutti un po’ brilli: per fare sesso, come si dice oggi. Erano allora i
partiti, entità che si ritenevano non solo in grado, ma pure in diritto di
forgiare gli individui, la loro mentalità, il loro stile di vita e i loro
comportamenti. In un’Italia nella quale il privato — scrive bene Tonelli —
«faceva corpo con la politica».
Sennonché, nell’asprezza della lotta, era proprio l’accusa morale, l’arma
privata e personale, quella a suo modo ritenuta risolutiva tanto dai comunisti
quanto dalla Dc. Per screditare i reciproci partiti, additandoli come fonti di
abiezione, portatori di dissolutezza, mali assoluti.
Per farla breve, diversi ma non troppi giorni dopo la notte brava i ragazzi
con cui Pasolini si era divertito litigarono fra loro; qualcosa si venne a
sapere in paese; e i dc colsero il destro per vendicarsi del trattamento che i
comunisti avevano riservato a uno di loro, omosessuale. E così, pur mancando
qualsiasi denuncia, attraverso la classica combinazione di forze di polizia e
organi di informazione, fin da allora alla base di qualsiasi manovra di
discredito, Pasolini fu fatto per la prima volta carne da macello giudiziario e
mediatico; e il partito prese le distanze mollandolo nella trappola.
Alla fine verrà anche assolto, ma troppo tardi: sopraffatto
dall’ingiustizia e dalla vergogna, era dovuto scappare con la famiglia a Roma.
Comunque non prima di aver scritto ai dirigenti: «Io resto e resterò
comunista».
Adesione lacerante, anch’essa a suo modo figlia di quel tempo di terribili
passioni. Nel 1960 il Pci lo “recupera” facendolo collaborare in piena libertà
a Vie nuove — e anche qui Tonelli
ricostruisce, come pure ai tempi de Il
Vangelo secondo Matteo , un rapporto nel quale, rispetto allo spessore
poetico e perfino profetico del personaggio, quel grande partito appare ora più
piccolo, e i suoi orizzonti più poveri, per certi aspetti forse già segnati.
Quattro mesi prima di morire, così continua la dichiarazione di voto al Jolly:
«La natura ci ha dato la facoltà di ricordare (o sapere) e di dimenticare (o
non sapere) ciò che vogliamo. Un’altra volta vi dirò — dirò a voi giovani,
soprattutto a quelli di 18 anni — che cosa al momento del voto, come in quello
della lotta, non voglio ricordare o sapere». Non ce ne fu il tempo, ma forse
riguardava proprio quell’indegnità morale a cui, con la mitezza di un animo
unico, aveva cercato di far fronte scrivendo: «Mi meraviglio della vostra
disumanità».
2015-10-28
Il poeta. Pier Paolo Pasolini
il vangelo eretico di un artista totale
Valerio Magrelli
Malgrado la sua venerabile età, quello della cultura italiana è un cielo
giovane, in cui molte stelle fisse sono apparse da poco. Nel teatro, nella
poesia o nel romanzo, ma anche nella critica e ovviamente nel cinema, non pochi
autori sono assurti alla gloria appena pochi anni fa. Quello di Pasolini
tuttavia, è un caso a parte: in mezzo a tanti astri, la sua figura spicca come
una costellazione vera e propria. Nessuno ha ottenuto risultati così notevoli
in discipline altrettanto disparate. Nessuno ha tentato, è ed riu
scito, a imporsi come poeta e romanziere, critico e drammaturgo,
regista,opinionista, maître à penser.
Anche la sua morte, atroce ed emblematica, lo ha proiettato sulla volta
celeste del mito. Accadde quarant’anni fa, il 2 novembre del 1975: fu trovato
ucciso all’Idroscalo di Ostia, il corpo martoriato, e tanti misteri non
chiariti sugli autori materiali e sui mandanti. Ma con quella tragedia è andato
incontro anche a ciò che i greci chiamavano “apoteosi”, ovvero a una sorta di
deificazione: l’assunzione al Cielo di un mortale. Come Ercole o Pegaso, forse,
nel firmamento culturale d’oggi, Pasolini è l’unica figura degna di tale
consacrazione.
Ciò che colpisce di più è la sua portentosa duttilità. Solo un uomo dal
genio rinascimentale, per certi aspetti addirittura leonardesco, poteva passare
dalla solitudine del filologo e dello scrittore, a quell’autentico suk in cui
consiste una ripresa cinematografica, lasciando il bianco silenzio della pagina
per il forsennato caos di una troupe. Questo per dare un’idea, sia pure
sommaria, delle inverosimili capacità metamorfiche del nostro autore.
D’altronde la sua formazione riflette bene tale bulimia. Già in terza liceo
Pasolini viene promosso con una media tanto alta da fargli saltare un anno.
Iscrittosi appena diciassettenne alla facoltà di Lettere dell’Università di
Bologna, eccolo avventarsi su materie disparate come la filologia romanza o la
storia dell’arte, il cui insegnamento era affidato a un maestro quale Roberto
Longhi. Superfluo ricordare, a questo punto, i suoi primi dipinti, peraltro
sostenuti da un altro grande storico dell’arte, Francesco Arcangeli. Certo, una
simile fame di sapere, una simile urgenza conoscitiva acquistano un significato
drammatico e premonitore alla luce della sua morte precoce, quasi che l’enfant
prodige avesse avuto bisogno di bruciare le tappe per realizzare in tempo tutti
i suoi progetti. Si spiegano così, per certi versi, la foga con cui lo studente
( che nel frattempo viene promosso capitano di calcio della facoltà di Lettere)
divora la poesia di Montale e di Ungaretti, nonché le traduzioni di Quasimodo,
mentre si imbatte in Freud e Marx, che rimarranno fra i punti fermi del suo
pensiero: “eretico”, “corsaro”, in certi casi indubbiamente contraddittorio.
Dopo Bologna, poi, è la volta di Casarsa, in provincia di Pordenone, città
natale dell’adorata madre.
Qui avranno luogo due esperienze fondamentali: da un lato la scoperta della
poesia dialettale, attraverso l’adozione della lingua friulana, dall’altro la
realizzazione di un’omosessualità edenica, troppo presto trasformata in
cacciata dal paradiso terrestre sotto forma di denuncia per corruzione di minorenni
e atti osceni in luogo pubblico, espulsione dal partito comunista e revoca
dell’incarico di docente. Senza più mezzi di sostentamento, e con la madre
costretta a fare la donna delle pulizie, Pasolini si trasferisce a Roma, dove
ben presto troverà, fra tante amicizie, quelle di Alberto Moravia e Bernardo
Bertolucci. Poco dopo, la folgorante affermazione nel mondo letterario,
giornalistico e cinematografico.
L’elenco delle sue opere è impressionante. In poesia si va dalle prove
dialettali di La meglio gioventù (poi riscritto come La nuova gioventù) alle
“romane” Ceneri di Gramsci, passando per La religione del mio tempo e
Transumanar e organizzar . Nel romanzo, Ragazzi di vita e Una vita violenta ,
oltre al magmatico e incompiuto Petrolio . E mentre nel teatro spiccano testi
quali
Affabulazione o Bestia da stile , tra i suoi film campeggiano capolavori
come Accattone ,
Il Vangelo secondo Matteo ,
la trilogia della vita ( Il Decameron , I racconti di Canterbury , Il fiore
delle Mille e una notte ) e il brutale, visionario Salò o le 120 giornate di
Sodoma .
Grandi film, per un uomo la cui versatilità emerge bene dal rapporto con
Federico Fellini. Il regista, che aveva fondato con Rizzoli una casa
cinematografica, nel 1961 fu in trattative per produrre
Accattone . Viste le prove iniziali, però, si tirò indietro.
Oltre alle pellicole di finzione, altrettanto ricca fu inoltre la sua
produzione di documentari, che spaziano dall’Emilia di Comizi d’amore
all’Uganda di Appunti per una Orestiade africana, nel coraggioso e ingenuo
tentativo di rinvenire il mito greco alle radici di culture preindustriali.
Occorre tuttavia illustrare ancora un passaggio di estremo interesse. A un
certo punto, infatti, lo stesso uomo che, nella sua disperata nostalgia del
passato agreste in cui viveva la provincia italiana, predicava il ritorno alle
radici e il rifiuto della società capitalista, si trasformò in un viaggiatore
indefesso, in un etnografo innamorato delle origini, pronto a cogliere ora
“l’odore dell’India”, ora l’intatto fascino dell’antica architettura yemenita.
Proviamo dunque a tirare le somme. Abbiamo parlato di “costellazione
Pasolini”, ad ogni modo, qualunque sia la similitudine che vogliamo adottare,
ovunque vadano le nostre preferenze, una cosa è evidente: con l’autore di un
film e opere teatrali, versi e romanzi, editoriali sull’omologazione e
recensioni come quella su Mandel’stam quale caposcuola delle poesia russa,
siamo di fronte a un talento così multiforme da meritare l’impiego del plurale.
Se è vero tutto quanto detto finora, allora non dovremmo più dire: “Pasolini
fu”, ma più semplicemente: “Pasolini furono”.
2015-10-28,
Il corsaro. Un terzo occhio
sul teorema del potere
Giovanni De Luna
L’Italia di oggi nacque con il boom economico, la grande trasformazione che
ne riplasmò sentimenti, mode, abitudini, comportamenti politici, scelte di
vita. Pier Paolo Pasolini ne fu protagonista e testimone e il suo lavoro si
propone allo storico come una fonte indispensabile per avvicinarsi al senso
profondo di quegli anni. Ma Pasolini ha anche egli stesso uno sguardo da
storico, interessato al mutamento,alle brusche impennate della grande storia
che rompono la crosta dell’immobilismo, spezzano equilibri plurisecolari. Così,
quando riflette sulla società italiana, lo fa con consapevolezza di chi si
misura con una questione — quella della continuità/ rottura tra il fascismo e
l’Italia repubblicana — che è tipicamente storiografica. Schierandosi
decisamente per la “continuità”, il suo riferimento è a una Democrazia
Cristiana che «sotto lo schermo di una democrazia formale e di un antifascismo
verbale, ha perpetuato la stessa politica del fascismo», dando vita a un
«regime poliziesco parlamentare ». Il blocco sociale su cui si fondava il
consenso democristiano era lo stesso del fascismo mussoliniano: la piccola
borghesia e i contadini uniti al grande capitale. Identico era anche il cemento
ideologico fondato sul cattolicesimo e su valori quali la moralità,
l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, la patria, la famiglia.
La tesi della “continuità” era in gran parte condivisa dagli storici di
allora. A marcarne l’originalità fu piuttosto il film su Salò o le 120 giornate
di Sodoma , del 1975. In quel caso davvero si spinse in territori che la stessa
storiografia ufficiale aveva fino ad allora complessivamente ignorato,
restituendo al fascismo la sua essenza biopolitica, attribuendogli un Potere in
cui si incarnava il Male assoluto. In quella Salò, il Potere consumava la sua
ultima, parossistica orgia e lasciava affiorare, senza più mediazioni ed
orpelli istituzionali, la volontà di impadronirsi — attraverso il sesso — dei
corpi dei propri sudditi; una volontà di dominio che era la diretta conseguenza
di quella “politicizzazione della vita” attraverso la quale, come avrebbe
sottolineato Agamben, nelle esperienze del totalitarismo novecentesco il corpo
dell’individuo diventava la posta in gioco delle strategie politiche, la
politica si trasformava in biopolitica: la nuda vita, l’esistenza biologica
degli individui, fino ad allora confinata in una terra di nessuno, veniva
inserita nel circuito della statualità, con la vita e la morte che non erano
più concetti scientifici ma politici, occasione per l’esercizio di un potere
che si saziava umiliando e profanando i corpi delle vittime.
Ma Pasolini “storico” fu originale anche per altri aspetti. Fu tra i pochi,
infatti, ad accorgersi di una “rottura” ben più profonda, avvenuta
nell’inconsapevolezza di molti. «La matrice che genera tutti gli italiani è
ormai la stessa — scriveva, nel 1974 — Non c’è più dunque differenza
apprezzabile… tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi
cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente, e
quel che più impressiona, fisicamente, interscambiabili... I giovani neofascisti
che con le loro bombe hanno insanguinato l’Italia, non sono più fascisti... Se
per un caso impossibile essi ripristinassero a suon di bombe il fascismo, non
accetterebbero mai di ritornare ad una Italia scomoda e rustica, l’Italia senza
televisione e senza benessere, l’Italia senza motociclette e giubbotti di
cuoio, l’Italia con le donne chiuse in casa e semivelate. Essi sono pervasi
come tutti gli altri dagli effetti del nuovo potere che li rende simili tra
loro e profondamente diversi rispetto ai loro predecessori». Con le piazze
arroventate da uno scontro ideologico ancora tutto novecentesco, queste
considerazioni suscitarono un inevitabile scalpore. Pasolini argomentava il suo
pessimismo segnalando due “rivoluzioni”, quella delle infrastrutture e quella del
sistema di informazione, avvenute proprio negli anni del boom. Le distanze tra
centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie
e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in
modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale. Il nuovo
Potere, nonostante le sue parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente
autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo. «Nessun
centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della
civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale
che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine,
sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili ad uniformasi ai loro
antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a
parole... Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e
incondizionata ». Certo, erano giudizi eccessivi, disperati quasi. Pure oggi,
alla luce di tutto quello che è successo dagli anni Ottanta, il pessimismo
pasoliniano assume i tratti di una lucida profezia.
2015-10-28,
Asor Rosa.Quando mi disse:
“Sei l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”
Intervista di Simonetta Fiori
«Vorrei dirlo proprio ai suoi più accaniti ammiratori: per carità non
fatene un santino. Un destino che Pier Paolo non si merita». Cinquant’anni fa
lo stroncò ferocemente in Scrittori e popolo come un piccolo-borghese
piagnucoloso, romanziere fallito e refrattario all’avanguardia. Oggi rivede (ma
solo in parte) le sue critiche e del polemista corsaro rimpiange la capacità
profetica, seppure mossa da premesse reazionarie. Alberto Asor Rosa ripercorre
il suo inquieto rapporto con Pasolini, mettendo in guardia dalla nuvola di
incenso che rischia di neutralizzarne la carica dialettica.
Dallo “scandalo del contraddirsi” all’“icona pop” di oggi: il percorso di
Pasolini risulta quasi paradossale. «Basta fare il raffronto con l’anniversario
di Calvino, di cui ricorre il trentennale. Il clamore per Pasolini è
enormemente più forte».
Come lo spiega?
«Calvino ha battuto una strada coerente con la sua natura di scrittore e
intellettuale: il discorso razionale non intriso di passionalità e polemica.
Pasolini evidentemente ha battuto la strada opposta. E la sua passionalità
finisce per incontrarsi di più con gli strumenti della civiltà massmediatica».
Sta dunque dicendo che
l’intellettuale che ci aveva messo in guardia dalla dittatura dei consumi
rischia di essere il più consonante a questa civiltà?
«Entra di più nei suoi circuiti di comunicazione. La mia non vuole essere
una critica postuma. La forza polemica di Pasolini consiste in una peculiarità:
nell’atto di formulare giudizi e valori esibisce totalmente se stesso. Calvino
fa l’operazione opposta: svolge la sua polemica politico-civile rifiutando di
esibirsi. L’esibizione di se stessi è uno dei tratti fondamentali della nostra
era massmediatica».
La corporeità di
Pasolini è centrale in questo discorso.
«Mi viene in mente quella serie di fotografie che si fece scattare nel suo
ritiro del Cimino mentre scrive nudo. Se lo immagina Calvino in mutande? Ma non
è un giudizio di valore, è pura descrizione ».
Perché si preoccupa
tanto di non apparire critico? Cinquant’anni fa lo fece a pezzetti.
«No, io rifiuto questa vulgata. La mise in giro il medesimo Pier Paolo, ma
non era così».
Lui ci rimase molto
male.
«Ci incontrammo in un’assemblea alla Sapienza, alcuni anni dopo l’uscita
del libro. Io ero seduto in prima fila e lui, passandomi davanti, mi fulminò
con lo sguardo a mirino: “Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”».
Perché l’aveva
stroncato?
«Io però vorrei correggere questo stereotipo. Nel saggio apparso su
Scrittori e Popolo ci sono due Pasolini. Uno è quello che punta a scavarsi un
posto di rilievo nella cultura contemporanea ammiccando alla linea progressista
ufficiale: il verbo comunista. E di questa spinta sono il frutto i romanzi
romani, che io trovo intollerabili proprio perché mescolano le sue pulsioni
naturali con il quadro ideologico populista del canone ufficiale».
Ma i critici comunisti
lo accolsero con sospetto.
«E lui reagì con stupore: ma come è possibile? Ho scritto quei romanzi
proprio tenendo conto della vostra linea… »
Questo Pasolini non le
piaceva.
«E continua a non piacermi. Ma in quel mio saggio c’era anche un altro
Pasolini, l’autore delle poesie e dei romanzi friulani, espressione autentica
del suo rapporto elegiaco con il mondo popolare. E c’era anche il Pasolini
delle Ceneri di Gramsci , dove lui
riflette criticamente e autocriticamente sul suo stare al mondo e sul suo
rapporto con l’Italia contemporanea. Il mio giudizio era già allora articolato
e lo sarebbe diventato ancor di più nei passati decenni».
Sì, certo, non fu solo
stroncatura.Ma nella parte critica non mancano passaggi molto aspri.
Soprattutto quando lei lo rimprovera atteggiarsi a «povero martire che invoca
grazia e pietà», che «pretende tregua e dunque confessa inferiorità», che in
sostanza «chiede di essere amato anche dal nemico».
«Ma su questo non ho dubbi. Anche qui il parallelo con Calvino è utile:
Calvino non ha alcun bisogno di essere amato perché la sua intellettualità e la
sua natura sono autonome. Pasolini aveva un urgente bisogno di essere
riconosciuto. Prima accennavo alla richiesta di comprensione e di aiuto che
avanzò alla cultura progressista: comprensione e aiuto che i critici comunisti
si guardarono bene dal concedergli. In sostanza il bisogno di riconoscimento
gli venne negato non solo dal ceto dominante conservatore e democristiano, ma
anche da quella cultura comunista che sarebbe dovuta essere la interlocutrice
privilegiata. Questo accentua il suo conflitto con il mondo fino agli esiti
tragici finali».
Gli negherebbe ancora il
ruolo di sperimentatore? In “Scrittori e Popolo” lo ritrae come un letterato
conservatore nemico dell’avanguardia.
«Negare oggi il ruolo di sperimentatore a Pasolini sarebbe francamente
assurdo, però letterariamente la sua è una sperimentazione che si muove molto
nei solchi della tradizione. E io all’epoca mi concentravo sulla sua opera
letteraria».
E quell’accusa di
piccolo-borghese? A sinistra suonava come un insulto.
«Sì, un’accusa che ci siamo rinfacciati a vicenda. È una terminologia di
quegli anni e oggi non mi verrebbe in mente ritirarla fuori. Decisamente
datata».
I vostri rapporti si
interruppero?
«No, tra noi non c’erano mai stati rapporti personali. Quando uscì Scrittori e Popolo io avevo 32 anni ed
ero uno sconosciuto, sideralmente lontano dalla società culturale romana che
aveva una struttura monocratica e chiusa. Il gruppo
Moravia-Pasolini-Betti-Siciliano viveva in una sua realtà impermeabile. E io ai
salotti romani bene preferivo il volantinaggio in fabbrica».
Oggi rimpiange il
Pasolini profetico.
«Sì, partendo da premesse totalmente sbagliate riuscì a cogliere meglio di
chiunque altro le aberrazioni del progresso. Una forza di denuncia e di
previsione impressionante».
Però allora a sinistra
era considerato reazionario e antiprogressista.
«Lo era, indubitabilmente. Era assetato di passato. Rimpiangeva un mondo
incontaminato senza cogliere gli elementi di progresso che pure tra gli anni
Cinquanta e Sessanta segnarono la crescita del nostro Paese. Ma il prevalere di
questo elemento primigenio ha finito per rendere la sua denuncia più violenta e
profetica».
Crede che la sua morte
fu dovuta a un complotto?
«No, non ci credo. La sua morte fu coerente allo stile di vita. Non voglio
dire che cercasse di essere ammazzato, ma se uno fa la vita che faceva Pier
Paolo non può non sapere che rischia di essere ammazzato. E tutto quello che
scrive e fa negli ultimi due o tre anni muove in quella direzione».
Cosa le dà fastidio
delle celebrazioni di oggi?
«Invece di capirlo e interpretarlo si tende a farne un santino spegnendone
la carica critica pungente. Il profeta dell’omologazione rischia di essere
consumato come un prodotto di massa ».
Walter Siti sostiene che
intorno a Pasolini è tutto un pigolio, ma in realtà non ci sono eredi: nessuno
si è confrontato davvero con la sua ricerca.
«Sì, ha ragione. L’unico è Saviano, che lo cita in Gomorra come oggetto di
pellegrinaggio alla tomba di Casarsa e ne tiene un po’ conto nella descrizione
della società camorristica. Per il resto non vedo eredi pasoliniani come non
vedo né fortiniani né calviniani. Non ci
sono eredi e basta».
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.